di Paolo Mieli
Dopo la strage
Fino ad oggi il colpo più duro inferto ad Hamas glielo ha assestato una giovane giornalista araba, Rasha Nabil, che, intervistando su Al Arabiya , il leader dell’organizzazione terroristica, Khaled Meshal, lo ha messo più volte in difficoltà. Al Arabiya — rivale della qatarina Al-Jazeera — è un’emittente televisiva fondata negli Emirati arabi uniti una ventina di anni fa, ha sede a Dubai e gode di finanziamenti sauditi.
Per il resto, la risposta di Israele allo sconvolgente attentato del 7 ottobre è stata fin qui inefficace, poco comprensibile e, ad ogni evidenza, controproducente. Nel mondo intero — eccezion fatta per piccole minoranze — s’è levata un’onda possente anti israeliana e sempre più spesso antisemita dalle proporzioni preoccupanti.
Onda che ha trovato eco addirittura al vertice delle Nazioni Unite dove il segretario generale Antonio Guterres — pur senza abbandonarsi a stereotipi antigiudaici — dopo parole di condanna all’attacco del 7 ottobre che potevano apparire insincere, ha ricondotto la responsabilità dell’accaduto a «cinquantasei anni di soffocante occupazione israeliana». Un’enormità. Parole dall’innegabile sottinteso giustificazionista. Anche se, per eccesso di precipitosità, ha sbagliato il delegato israeliano a chiedere le dimissioni del segretario delle Nazioni Unite.
Guterres in ogni caso non è solo.
L’ atto originario dell’attuale conflitto, gli oltre mille abitanti di Israele sgozzati, bruciati vivi e in parte rapiti, quell’atto è pressoché scomparso dall’universo della comunicazione. Ha dovuto cedere il passo al «genocidio» perpetrato contro la popolazione di Gaza cui allude il segretario dell’Onu. Grandi personalità del mondo intero — anche quello occidentale — seguono il «modello Guterres» e si adeguano ogni giorno di più a questo modo impressionante di guardare a ciò che sta accadendo in Israele.
Ogni residua speranza è affidata alle «mediazioni» del Qatar (tra i principali supporter di Hamas) grazie alle quali si riesce ad ottenere, goccia a goccia, la liberazione di qualche prigioniero. Persino in Israele i giornali dibattono su quando verrà l’ora di dimissionare Netanyahu — per alcuni è già scoccata — e descrivono senza autocensurarsi divisioni all’interno dell’esercito. Raccontano di dirigenti politici e militari il cui principale intento è quello di mettersi al riparo da contestazioni e accuse dopo, quando tutto sarà finito.
Ma verrà presto quel dopo? Possiamo dire che sia questione di giorni, di qualche settimana? Ci sia consentito di dubitarne. Ogni paragone con le guerre del passato è improprio. Nel senso che quelle di cinquanta, sessant’anni fa (1956, 1967, 1973) furono guerre di uno Stato contro altri Stati. E in parte anche per quel che riguarda il Libano fu così. Ma contro le organizzazioni terroristiche — soprattutto se, come Hamas, hanno dato prova di godere di un qualche consenso nella popolazione civile — la faccenda è totalmente diversa.
Da quando Sharon «liberò» Gaza (2005) le guerre con Israele si sono moltiplicate e ognuna di queste guerre si è conclusa in modo tale da poter ricominciare poco tempo dopo. Questo tipo di scontri con i terroristi si possono «vincere» solo nei modi che Putin usò a suo tempo per la Cecenia. Terreno su cui, ci auguriamo, nessun dirigente di Israele abbia in mente di avventurarsi.
Biden quando con coraggio ha rievocato come sono andate le cose in Iraq e, soprattutto, in Afghanistan, ha provato a farcelo capire. Non è quella la strada da battere. Il prolungato attacco a Gaza, accompagnato da immagini quotidiane di vecchi, donne e bambini che mostrano i loro lutti, non è «compensato» dalla notizia che è stato colpito questo o quel dirigente di Hamas. Neanche un po’.
Progressivamente si è costretti ad assistere all’aumento delle tensioni e all’arrivo di missili anche nel resto di Israele avendo sullo sfondo la sempre più esplicita e provocatoria rivendicazione da parte dell’Iran della regia di tutto quel che sta accadendo.
A nulla vale che sia ogni ora più evidente il fatto che Hamas non ha minimamente a cuore la sorte dei palestinesi, che l’obiettivo dichiarato dell’operazione avviata il 7 ottobre è la distruzione dello Stato di Israele. L’Europa (non tutta, per fortuna) isola ogni giorno di più Ursula von der Leyen che — come già accadde per l’Ucraina — sembra essere tra i pochi a rendersi conto di quel che sta realmente accadendo.
Le manifestazioni ostili agli ebrei vengono ignorate come accadde negli Anni Trenta. Fa una certa impressione assistere allo spettacolo di persone che non versarono una sola lacrima per l’uccisione di innocenti a Mariupol, e adesso si strappano le vesti per qualcosa che — fino ad ora — non è neanche lontanamente paragonabile a quel che si è visto in Ucraina.
Eppure, il fatto che Rasha Nabil abbia osato sfidare Khaled Meshal ci induce a sperare che quella tela tessuta con l’Arabia Saudita non sia definitivamente strappata. Che re Abdullah II di Giordania abbia rifiutato di incontrare Biden solo per opportunismo. Che, in Egitto, al Sisi sia preoccupato per quel che sta accadendo forse più di Netanyahu. Che gli Emirati arabi uniti stiano attentamente valutando il vero senso della «mediazione» del Qatar.
Anni fa in occasioni consimili eravamo soliti evocare l’«islam moderato». Stavolta — per decenza verso noi stessi — abbiamo rinunciato a quell’appello. Però, forse, quando poneva quelle domande scomode a Meshal, Rasha Nabil era consapevole di avere alle spalle un mondo. Un mondo più grande di quel che oggi possiamo immaginare.