di Paolo Mieli
Gli sfregi agli ebrei
Si è tenuta a Parigi una manifestazione contro l’antisemitismo all’indomani di quella londinese a favore dei palestinesi e delle dichiarazioni del presidente iraniano Ebrahim Raisi al summit dei Paesi musulmani in Arabia Saudita («Baciamo le mani di Hamas»). Il raduno all’Esplanade des Invalides ideato da Gérard Larcher e Yaël Braun-Pivet ha avuto un insperato e inaspettato successo. Era però assente un pezzo non irrilevante della sinistra francese.
Il presidente Emmanuel Macron che all’indomani dell’attacco del 7 ottobre era corso in Israele per proporre un’alleanza mondiale contro Hamas come quella contro l’Isis, negli ultimi giorni si è mostrato più sensibile alle sorti dei civili di Gaza e ha preso le distanze dall’adunata di Larcher e Braun-Pivet. Per non essere costretto, s’è giustificato, a sfilare al fianco di Marine Le Pen che prontamente invece aveva dato la propria adesione. Dando prova, Macron, di aver conservato intatta la disinvoltura che all’inizio della guerra d’Ucraina gli consentiva di svolazzare tra Mosca e Kiev annunciando «svolte» che coincidevano prevalentemente con suoi mutamenti d’umore.
Per fortuna — a vantaggio della sinistra superstite — erano presenti l’ex presidente della Repubblica François Hollande, l’attuale premier Élisabeth Borne e gli ex Bernard Cazeneuve e Manuel Valls (in prima fila). Dietro di loro l’ecologista Marine Tondelier, il socialista Olivier Faure e persino il comunista Fabien Roussel, fischiatissimi in quanto appartenenti all’alleanza guid ata da Jean-Luc Mélenchon.
I l quale Mélenchon, trascinandosi dietro pressoché l’intera gauche, ha abbracciato come è noto — sempre sotto le insegne palestinesi — la causa islamica. Senza preclusioni nei confronti degli islamici più radicali.
Secondo il filosofo Pascal Bruckner l’estrema sinistra francese è oggi «antisemita» né più né meno che l’estrema destra. Un fenomeno non sconosciuto nella storia francese. Ai tempi del caso Dreyfus, Jules Guesde arrivò alla rottura con Paul Lafargue — assieme al quale vent’anni prima (1882) aveva fondato il Partito operaio — perché, pur considerando il «capitano ebreo» innocente, riteneva che la campagna a suo favore fosse impropria per chi si era assegnato il compito di battersi contro la borghesia. Considerava Dreyfus una persona che aveva goduto «di una ricchezza prodotta dal furto operato sugli operai sfruttati dalla sua famiglia». Una famiglia di israeliti. E Marc Lazar ha ricordato come negli Anni Trenta il Partito comunista francese teneva discorsi antisemiti contro il socialista Léon Blum.
Ma a quei tempi, prima metà del Novecento, gli stendardi dell’odio contro gli ebrei erano ben saldi nelle mani della destra. Adesso è diverso. Per agganciare le «minoranze» islamiche, in tutti i Paesi d’Europa l’asta di quelle bandiere è impugnata da mani di sinistra e i gruppi dirigenti mostrano qualche incertezza nel contrastare questo fenomeno. Mentre la destra, pur con una sospetta rapidità, si è spostata di campo, a difesa degli ebrei, contro ogni manifestazione di giudeofobia.
Il che crea dappertutto, anche qui in Italia, qualche imbarazzo. Tre donne (la prima ex internata ad Auschwitz, le altre due, esponenti della comunità ebraica) hanno messo in evidenza il fastidio provocato da alcuni atteggiamenti di quella che è — presumibilmente, in linea generale — la loro parte politica. Edith Bruck ha dichiarato che i fatti dell’ultimo mese le hanno fatto cambiare idea circa la sensibilità della sinistra in tema di antisemitismo. Anche per quel che concerne la riflessione sui migranti.
Noemi Di Segni ha messo in evidenza quanto sia ancora diffusa nel campo progressista un’indiscriminata ostilità nei confronti di Israele. E, a seguito di questa constatazione, s’è presa in sovrappiù qualche ruvida rampogna. Ruth Dureghello ha ricordato come già ai tempi della guerra del Libano (1982) s’innescò un equivoco «processo di colpevolizzazione di tutto il popolo ebraico». Dopodiché nel corso di un raduno della Cgil fu deposta una bara davanti alla Sinagoga di Roma e, trascorsi pochi giorni, un commando palestinese uccise, nello stesso posto, un bambino di due anni: Stefano Gaj Taché.
Un delitto «di cui peraltro non sono mai stati individuati i responsabili», sottolinea Dureghello ponendo indirettamente qualche interrogativo sulle modalità e la solerzia con cui furono condotte le indagini. Non che Bruck, Di Segni e Dureghello intendessero dire che qualcuno a sinistra si è, un mese fa, sottratto all’immediato dovere di pronunciare parole di condanna nei confronti dell’ecatombe del 7 ottobre. Figuriamoci.
Ma forse si aspettavano che il tema venisse successivamente approfondito in modi più circostanziati. Soprattutto quando a quel lutto in Europa s’è accompagnata una moltiplicazione di aggressione a cittadini ebrei, svastiche sui muri, oltraggi a sinagoghe e cimiteri israelitici. Sfregi a ebrei. Non a israeliani in un qualche rapporto con Netanyahu. Gente che non aveva nessuna relazione con bombardamenti e missili su Gaza. Ebrei. Solo ebrei. Nient’altro che ebrei.
In Germania, Olaf Scholz, ma ancor più il vicecancelliere Robert Habeck e la ministra degli Esteri Annalena Baerbock, questo genere di riflessioni e di distinzioni le hanno fatte. Eccome. In Gran Bretagna il leader laburista Keir Starmer si è spinto addirittura a denunciare l’ambiguità contenuta in alcuni appelli per il «cessate il fuoco» a Gaza. Da noi meno. Molto meno.
Una qualche sensibilità ha suggerito a Elly Schlein di evitare che la «sua» manifestazione di sabato scorso fosse caratterizzata dallo sventolio di bandiere palestinesi e da slogan che invitavano a «liberare la Palestina dal fiume Giordano alle rive del mare» (il modo corrente di chiedere la distruzione dello Stato di Israele). Il che, conoscendo parte dei gruppi dirigenti (occulti o palesi) selezionati dalla sinistra italiana negli ultimi decenni, è già qualcosa di ardimentoso da parte della giovane leader.