Dalle indagini sulle Ong al caso Morandi, legali usati come “fonte”.
Ma di mezzo ci va la Costituzione
Il magistrato Henry John Woodcock, intervenendo nel 2016 ad un convegno organizzato dalle Camere penali dal titolo “Avvocato… posso parlare?”, disse: «Se dovessi dare una risposta al povero disgraziato che dice “posso parlare” risponderei “è meglio che c virimm o bar” (è meglio che ci vediamo al bar, ndr)». Questa semplice risposta di colore data dal pm ci fa capire quanto il problema dell’intercettazione tra assistito e avvocato sia reale.
Diversi gli episodi che si possono narrare a tal proposito. Durante un’indagine avviata dalla procura di Trapani nel 2016, con lo scopo di fare luce sull’attività delle ong attive in mare per soccorrere i naufraghi che cercavano di raggiungere le coste europee, furono registrate conversazioni di giornalisti ed avvocati, nonostante non fossero iscritti nel registro degli indagati.
Come raccontò lo scoop del Domani, la giornalista di inchiesta Nancy Porsia fu ascoltata per mesi al telefono mentre parlava con la propria avvocata, Alessandra Ballerini; agli atti dell’inchiesta risultava anche la trascrizione di brani di colloqui relativi alle indagini su Giulio Regeni, la cui famiglia è rappresentata sempre dall’avvocata Ballerini.
Ma tra le persone intercettate dalla polizia giudiziaria c’erano pure altri avvocati – oltre Ballerini si tratta di Michele Calantropo, Fulvio Vassallo Paleologo e Serena Romano -, ascoltati dagli uomini in divisa mentre discutevano con i propri clienti di strategie difensive. Tra il 2016 e il 2017, come ci raccontò la collega Simona Musco, nelle cuffie dei finanzieri di Locri finirono anche le voci dei difensori dell’ex sindaco di Riace Domenico Lucano, intercettato mentre era al telefono con gli avvocati Antonio Mazzone (scomparso a dicembre 2020 e sostituito dall’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia) e Andrea Daqua.
La cimice piazzata a Palazzo Pinnarò registrò l’ex sindaco e Daqua, a cui si era rivolto dopo le ispezioni che hanno dato il là all’indagine che lo ha fatto finire a processo. E quel dialogo, anziché essere cestinato, venne trascritto nell’informativa finale dell’inchiesta “Xenia”. I due, in quel momento, discutevano di possibili strategie difensive, in vista di un’ormai più che scontata indagine.
Nel 2017 un sostituto procuratore della Repubblica e un tenente colonnello della Guardia di Finanza avrebbero convocato con un pretesto un giovane praticante di un noto studio legale milanese, lo avrebbero chiuso in una stanzetta, intimidito con urla e minacce, obbligato a spegnere il cellulare, gli avrebbero negato il diritto di appellarsi al segreto professionale e lo avrebbero torchiato per tre ore e mezza per estorcergli informazioni su un importante cliente dello studio che aveva concluso la procedura di voluntary disclosure per un rimpatrio di capitali dall’estero.
La procura, poi, per saperne di più sottopose a intercettazione l’auto del praticante e la sua utenza telefonica, «al fine di poter conoscere eventuali – probabili – comunicazioni tra lui e i titolari dello studio concernenti la delicata» pratica del loro assistito. Nell’ambito della stessa vicenda fu intercettato un altro avvocato, ma fu trovato un escamotoge: per poterlo ascoltare fu definito come commercialista e non come legale.
Nel 2018 a lanciare l’allarme fu il noto penalista romano Giosuè Bruno Naso: «Non possiamo più tacere sui metodi utilizzati dalla procura di Roma, non possiamo più tollerare che, come accaduto a mia figlia, un avvocato venga intercettato telefonicamente e pedinato nell’esercizio della sua funzione, che io trovi una cimice sul pianerottolo del mio studio professionale, non possiamo più far finta di niente dinanzi al fatto che al Tribunale del Riesame a giudicare ci siano i coniugi dei pm».
Poi ci fu nel 2019 il caso dell’avvocato Francesco Mazza: gli giunse la notifica di chiusura delle indagini preliminari a carico di tre suoi assistiti nell’ambito di una vasta operazione anti usura condotta dai carabinieri di Roma Eur e nella corposa informativa finale depositata presso la procura della Repubblica di Roma messa a disposizione del legale, l’avvocato si accorse che per ben due volte la polizia giudiziaria aveva riportato dettagli di conversazioni tra lui e un suo assistito, indagato per usura, e il cui telefono era sotto controllo dell’autorità giudiziaria. Nel primo caso, era trascritta l’intera conversazione, nel secondo caso ne veniva fatto un sunto.
Ci spostiamo nel 2021: inchiesta sul crollo del ponte Morandi. Una testata pubblica l’intera ordinanza di custodia cautelare e l’avvocato Roberta Boccadamo apprende che viene riportata al suo interno una intercettazione telefonica tra lei e il suo assistito.
Ci raccontò: «Rimango basita non solo perché viene intercettata questa conversazione ma viene addirittura trascritta, e quindi utilizzata, dal gip. E mi viene addirittura attribuita la qualità di “compagna” del mio assistito, non si sa sulla base di cosa».
Sempre nello stesso anno, l’avvocato Nicola Canestrini presentò un ricorso alla Cedu contro le intercettazioni delle conversazioni tra lui e il suo assistito. Ritrovò nei brogliacci allegati alle informative contenute nei fascicoli di indagine alcune intercettazioni intrattenute con il proprio cliente.
«Si trattava di una persona detenuta che si trovava a 200 chilometri dal mio ufficio – aveva spiegato al Dubbio -, potevamo solo telefonarci per metterci d’accordo sulle strategie difensive. Era il momento di decidere se ricorrere o meno al Riesame. Leggendo i brogliacci ho trovato trascritte nel fascicolo le nostre telefonate».