Le primarie non sono il vangelo
La segretaria dem vuole imporre una svolta radicale. Intanto, la minoranza riformista si riorganizza: Fassino, Gori, Bonaccini in campo
L’annunciato ritorno di Paolo Gentiloni in Italia, « non per andare in pensione», come ha esplicitato lui stesso, ha acceso una miccia nel Pd. Quella di una candela votiva, di una speranza, per alcuni. Quella di una bomba, per altri. Sia come sia, il correntone riformista si è dato una scossa. Tutti sottocoperta non ci stanno più. Anche perché i sondaggi parlano chiaro: il Pd si barcamena tra il 18 e il 19 per cento.
Il M5S al momento alle Europee prenderà tra il 17,5 e il 18,5%. La forbice sovrappone i due partiti, resi gemelli e sempre più indistinguibili, favorendo l’originale rispetto alla copia. Se il Movimento guidato da Giuseppe Conte dovesse prendere anche un solo voto più dei Dem, per Schlein sarebbe una Waterloo: dovrebbe abdicare e prendere la via dell’esilio. Perché ci sarebbe la dimostrazione plastica, la prova provata che i vasi comunicanti, tra Pd e M5S, sono costruiti in una dinamica di vantaggio competitivo per i soli secondi.
La cambiale siglata con i simpatizzanti e gli elettori 5 stelle intruppati ai gazebo delle primarie starebbe arrivando all’incasso, insomma, ma il banco è pronto a dichiararlo inesigibile. Perché per la prima volta al Nazareno si è iniziato a pensare al freno a mano. A una soluzione che metta in sicurezza il Pd prima che la valanga lo travolga, tra una mozione antiisraeliana e una fuga in avanti sul fine vita. Le chat dei parlamentari dem, nel fine settimana, hanno segnato alta temperatura per il paziente, ben al di sopra della normale dialettica.
La due giorni di Gubbio è stata segnata più dall’eloquente assenza della segretaria dalla quasi totalità dell’incontro che dalle sue parole. Nel breve volgere di una mattinata Schlein è riuscita a smottare la postura atlantica costantemente tenuta negli anni dal partito che ha espresso un ministro della Difesa apprezzato e autorevole come Lorenzo Guerini.
La gaffe è nota: « Non dare più armi a Israele… » senza sapere che l’Italia già da mesi non esporta più armi a Israele. E certo, nella settimana che ricorda la Shoah non si poteva immaginare idea più infelice e intempestiva, a tutto voler concedere, che una mozione per il disarmo degli israeliani. Se la Giornata della memoria celebra gli ebrei morti, e lì sono tutti concordi e all’occorrenza commossi, quando si tratta di celebrare gli ebrei vivi, ovvero il diritto di Israele a difendersi, il Pd di Elly Schlein si mette di traverso.
La segreteria sta lavorando a una mozione che rischia di suscitare un vespaio di polemiche, dall’Unione delle Comunità Ebraiche e non solo, proprio nei giorni in cui si dovrebbe manifestare affinché, come diceva Primo Levi, “Non ci sia memoria senza un futuro”. E niente, Schlein va dritta per la sua strada: « Non dobbiamo alimentare il rischio di crimini di guerra », insiste su Israele. Ha buon gioco il capogruppo di Italia Viva, Enrico Borghi nel dire che in questo modo «si rincorre massimalismo del M5S».
Andrea Orsini, capogruppo di Forza Italia in commissione esteri, può ben sintetizzare che Schlein «anticipa la sentenza della Corte dell’Aja e si allinea ai giudizi del vasto fronte anti-occidentale che condanna Israele a prescindere, senza tenere conto dei fatti e delle circostanze». Ma a preparare l’opposizione più forte a Schlein si appresta la minoranza riformista del suo stesso partito.
Quando l’ex parlamentare Stefano Parisi chiama a teatro i fondatori dell’Associazione SetteOttobre, “Nata per contrastare la marea montante del negazionismo, delle falsificazioni, dell’odio antisemita, riaffermare il diritto di Israele a difendersi”, ecco in prima fila, e in calce sul manifesto fondativo, il cofondatore del Partito Democratico Piero Fassino. Ecco Enrico Morando, instancabile animatore della corrente che fu migliorista.
Ecco Claudia Mancina. Il loro strappo è solo quello iniziale di una parte che si sente tradita dalle scelte della segretaria. Che in assenza di strategia, punta su singole battaglie, su campagne one-issue.
Al momento, appena avrà dato il benservito al diritto di autodifendersi di Israele, si dedicherà all’abolizione della Bossi-Fini, allo Ius soli e al Fine vita. L’orizzonte temporale arriva a giugno, d’altronde. E nel frattempo scontenta i cattolici dem anche sul caso della consigliera regionale veneta, Anna Maria Bigon, che astenendosi per voto di coscienza sulla legge regionale sul Fine vita ha “inferto una ferita al nostro partito e alla nostra comunità”, ha sentenziato Schlein. Nell’entourage della leader dem si paventa l’adozione di provvedimenti disciplinari.
Ed è bastato il venticello dell’ipotesi per far saltare qualcuno su tutte le furie. « Se la sospendono, mi sospendo anche io», ha detto ad esempio l’ex ministro Graziano Delrio. « Sulle questioni di coscienza non si può mai assumere una posizione rigida», ha messo le mani avanti l’esponente dell’area catto-dem. Tutto il Pd è in fibrillazione, non è più una conta di correnti. I territori, come la Sardegna, stanno restituendo la tessera al Nazareno.
I cattolici, i riformisti sono in rivolta. Ma anche le donne dell’ala movimentista non seguono Schlein nella sua idea di candidarsi capolista. E ieri lo ha detto, chiaro e tondo, Stefano Bonaccini: «Siamo un partito democratico e plurale, a cui non manca una diffusa e preparata classe dirigente nei territori. Inoltre, con Schlein capolista, temo sarebbero penalizzate le donne».
Oltre a Bonaccini e a Fassino si nota l’attivismo di Giorgio Gori. Che torna in tv per lanciare la sua campagna elettorale per le europee. Tra i dem si è capito che lo strumento delle primarie non è il più affidabile per individuare il leader. A dirlo ieri è stato lo stesso inventore dello strumento, Romano Prodi: «Le primarie sono uno strumento utile ma non sono il Vangelo», ha ammesso.