Tra Orbán e Zelensky
L’Italia, del resto, è l’unico Paese europeo ad aver sposato la linea dell’Ungheria contro l’uso delle armi occidentali per colpire le basi russe da cui partono gli attacchi all’Ucraina, senza che stavolta a sinistra nessuno, con l’eccezione di Lorenzo Guerini, ci trovasse nulla da eccepire, scrive Francesco Cundari nella newsletter “La Linea”.
Più passa il tempo, più mi convinco che nel posizionamento di Giorgia Meloni si potrebbe vedere un curioso rovesciamento della classica doppiezza togliattiana.
Allora il Pci si muoveva nella contraddizione tra le parole (e anche gli atti) in difesa della democrazia in Italia e la piena adesione al movimento comunista guidato dall’Unione sovietica, che quegli stessi principi negava in radice, sul piano internazionale.
Oggi la doppiezza meloniana sembra muoversi in senso opposto – e sottolineo sembra – raccogliendo grandi elogi da democratici e liberali di tutto il mondo per il posizionamento internazionale, in particolare sull’Ucraina, pur mostrando idee assai diverse in politica interna, e anche in Europa, a cominciare dallo storico rapporto della nostra presidente del Consiglio con il primo ministro ungherese Viktor Orbán, il teorico, e pratico, della «democrazia illiberale», oltre che il principale cavallo di troia russo in Europa.
Un’ambiguità che è forse un carattere della politica e della società italiana più radicato e diffuso di quanto mi piacerebbe ammettere, e che di sicuro è ben rappresentata dalla curiosa posizione di Meloni ieri a Cernobbio, tra il suo grande amico Orbán da un lato e il presidente ucraino Volodymir Zelensky dall’altro.
Ma il fatto che l’altro «ospite d’eccezione» chiamato dagli organizzatori del forum, oltre a Zelensky, fosse proprio il leader ungherese, come nota oggi Paolo Mieli sul Corriere della sera, è uno di quei piccoli dettagli che indicano «il mutare dei tempi» (o forse il loro, e il nostro, non cambiare mai).
Del resto, lo stesso Mieli ricorda anche come l’Italia sia stato l’unico Paese europeo a sposare la linea dell’Ungheria contro l’uso delle armi occidentali per colpire le basi russe da cui partono gli attacchi all’Ucraina, senza che stavolta a sinistra nessuno, con l’eccezione di Lorenzo Guerini, ci trovasse nulla da eccepire (anzi). «Il che vuole dire che per una parte consistente della sinistra italiana ci sono occasioni, e non di poco momento, in cui le posizioni di Orbán si fanno apprezzabili».
È la tragedia del bipopulismo italiano, e purtroppo, sempre di più, europeo: vedi la morsa rappresentata in Germania dagli opposti sovranismi-putinismi dell’estrema destra filo-nazi di Afd e del populismo rossobruno di Sahra Wageknecht.
L’ambiguità di Fratelli d’Italia, oltre ad avere conseguenze potenzialmente molto più significative, essendo il principale partito di governo, ha però una radice storica peculiare, che la dice lunga anche sul percorso (all’indietro) compiuto dalla destra oggi al governo rispetto ai tempi di Gianfranco Fini e Alleanza nazionale.
Più che le militanze giovanili e le dichiarazioni del passato, come scrive giustamente Carmelo Palma su Linkiesta a proposito del nuovo ministro della Cultura Alessandro Giuli, quello che dovrebbe preoccuparci è il fatto, troppo spesso rimosso, che esponenti di Fratelli d’Italia e intellettuali di area abbiano «continuato, fino al 24 febbraio 2022, e alcuni anche dopo, a vedere in Putin l’unico statista davvero di destra, a riconoscervi un baluardo dei valori europei e dell’identità cristiana e un alleato contro le élite tecnocratiche internazionali, che scippano il valore della sovranità».
Dimostrandosi così – aggiungo io – assai meno affidabili, democraticamente e personalmente, di quanto li dipingano certi osservatori sempre ansiosi di dare la loro benedizione ai nuovi potenti.
Ma anche meno cretini dei loro avversari/omologhi di sinistra, che in Putin continuano a vedere, sotto sotto, il campione della sinistra antimperialista.