di Francesca Spasiano
Giustizia
I pediatri replicano alla ministra che chiede di denunciare. E intanto tra le coppie dilaga il panico: oltre 40 le richieste di assistenza all’Associazione Coscioni
Fatta la legge, trovato l’inganno? Le cose sono un po’ più complicate quando si tratta di maternità surrogata. E ora, a meno di una settimana dall’approvazione definitiva del reato universale, la crociata contro la gestazione per altri sembra già passata alla fase due: la “guerra” psicologica.
A dare il la ci ha pensato la ministra della Famiglia e della Natalità Eugenia Roccella, che ieri ha chiamato alle armi i medici “spia”. «Un pubblico ufficiale, e anche il medico, è tenuto a segnalare i casi di sospetta violazione della legge sulla maternità surrogata alla procura. E poi si vedrà», ha spiegato l’esponente del governo. La quale spera che la nuova legge «abbia un effetto fortemente dissuasivo». Come dire: se non basta il codice penale, resta sempre lo spauracchio della galera.
Peccato, però, che i camici bianchi non abbiano gradito molto l’invito alla delazione: al contrario hanno esortato i pazienti a recarsi dal medico senza timori. «Il medico ha il dovere di curare: dovere che gli deriva dalla Legge – in primis, la Costituzione – e dal Codice deontologico, è confermato dalla giurisprudenza e prevale su ogni altro obbligo, facoltà o diritto.
Che il medico sia esonerato dall’obbligo di denuncia nei confronti del proprio paziente lo si desume anche dal capoverso dell’articolo 365 del Codice penale che esime il medico da tale obbligo quando il referto esporrebbe la persona assistita a procedimento penale.
Quindi il medico non deve, è vero, ostacolare la giustizia ma non deve, soprattutto, porre in essere atti che mettano a rischio la relazione di cura, limitando la tutela della salute dei cittadini», recita la replica immediata di Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri.
Sulla stessa linea, poche ore dopo, le parole di Antonio D’Avino, presidente della Federazione italiana medici pediatri. Ovvero i professionisti immediatamente coinvolti in casi del genere. «I bambini vanno assistiti e visitati in qualsiasi condizione. A noi non interessa l’etnia, la provenienza e la religione, a noi interessa la salute del piccolo.
Nell’ambito dei pazienti, i minori e i fragili sono quelli che hanno diritto a un canale preferenziale. Quando entra un bambino nel nostro studio noi non sappiamo se è nato con la maternità surrogata, facciamo una anamnesi per sapere come è andata la gravidanza ma questo non vuol dire che dobbiamo approfondire la “provenienza” del piccolo», ha spiegato D’Avino.
Per la ministra Roccella, però, il dovere di cura non c’entra. E Anelli avrebbe confuso i piani, perché «in questo caso chi ha commissionato, violando la legge, la maternità surrogata, non ha un problema di salute, visto che chi ha partorito e ha bisogno di cura è casomai la madre surrogata». La stessa ministra ricorda che «una legge in vigore da vent’anni punisce penalmente in Italia non solo chi pratica l’utero in affitto, ma anche chi lo “organizza e pubblicizza”».
E in effetti è così: la surrogata in Italia era già illegale. Come prevede la legge 40 del 2004, che punisce con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600mila euro a un milione di euro “chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità”.
Ciò che cambia, con la nuova norma voluta da Fratelli d’Italia, è che ora sarà perseguibile anche il cittadino italiano che faccia ricorso alla pratica all’estero, nei Paesi dove la surrogata è legale. Il crimine universale, appunto, che nelle intenzioni del centrodestra colma un vuoto normativo introducendo un freno ulteriore al cosiddetto “turismo procreativo”.
Ma cosa cambierà davvero, nei fatti? Se fino ad ora i procedimenti avviati nei casi “sospetti” si concludevano con l’archiviazione, perché il fatto era commesso interamente all’estero, adesso la musica cambia. Ma molto dipenderà dalla normativa del Paese in cui è nato il bimbo.
«In posti come gli Stati Uniti e il Canada, il bambino ha già uno stato giuridico ben definito: avendo già la cittadinanza di quel paese, non ha bisogno di ulteriore documentazione per rientrare in Italia», spiega al Dubbio Francesca Re, avvocata e consigliera generale dell’Associazione Luca Coscioni. Quando ci si presenta dall’ufficiale, questi dunque è tenuto a trascrivere l’atto di nascita formato all’estero.
Le cose cambiano se ci si rivolge a un Paese europeo come la Grecia: per rientrare in Italia serve un “passaportino” di viaggio. «In questi casi – aggiunge Re – c’è una circolare secondo la quale le autorità consolari che hanno il sospetto che ci sia stato il ricorso alla Gpa devono comunicarlo alle autorità italiane, quindi alla procura della Repubblica e al Comune di residenza italiano in cui poi il bambino verrà registrato».
Ed è chiaro che le prime “indiziate” saranno le coppie composte da due uomini. Ma anche a fronte di segnalazioni chiare, le procure rischiano di trovarsi con un «fascicolo vuoto», se lo Stato estero si rifiuta di collaborare per fornire le prove del fatto commesso sul proprio territorio.
Nell’attesa di capire come si potrà applicare il reato universale, il panico però dilaga. E sono già oltre 40 le richieste di assistenza arrivate alla Coscioni da parte di coppie preoccupate per la nuova norma. Che non è ovviamente retroattiva, ma neanche chiara rispetto al momento che si considera rilevante penalmente.
Chi sarà perseguibile, e a partire da quando? «Se il reato si considera consumato alla firma del contratto, significa che per tutte le famiglie che adesso lo hanno già firmato, anche se non c’è stato ancora il trasferimento dell’embrione nell’utero della gestante, questa nuova legge non è applicabile – ragiona la legale -. Diverso è se si considera la gravidanza in atto. Al momento ci sono molti casi borderline ed è purtroppo difficile fare previsioni precise».
Per ogni nascita, c’è lo spettro del carcere (o quantomeno del tribunale).