di Guia Soncini
L’avvelenata
Mutatis mutandis
La profezia di Checco Zalone si è avverata: gli omosessuali sono tali e quali a noi. La prossima battaglia culturale sarà quella di non usare parole a casaccio come pederasta, sentiment o radical chic
Nessuno sa chi abbia detto la battuta più adatta a commentare la questione-Giuli. Se la guglate, vi esce un mio vecchio articolo che con gran sicumera la attribuisce a Beppe Grillo (ma figuriamoci), e uno di Michele Serra che in modo più dubitativo dice che potrebbe essere di Lenny Bruce (già più probabile).
La battuta parla apparentemente d’altro, rispetto al caso-Giuli, caso che procedo a riassumervi casomai in questi giorni foste impegnati a rileggere Proust (quel pederasta, cit. di chat). Alessandro Giuli arriva al ministero della Cultura a sostituire Sangiuliano, e nomina un suo capo di gabinetto, tal Francesco Spano, che le persone normali non avevano mai sentito nominare e gli analfabeti avevano visto criticato dal varietà “Le iene”, che a quanto leggo nel 2017 aveva deciso fosse uno dei cattivi (una garanzia).
Quando Spano si dimette, noialtri normali – noi che per informarci non ci affidiamo ai varietà coi balletti né a programmi senza balletti ma sempre con inviati la cui idea di giornalismo è sputtanare la gente – apprendiamo innanzitutto due cose: in una chat di governo gli hanno dato del «pederasta»; e Spano avrebbe dato al marito (all’unito civilmente) un incarico al Maxxi.
Sull’esistenza di un ossimoro quale «chat di governo» già mi ero espressa e poi ci torniamo; anche su «pederasta» poi ci torniamo, ma sul marito che appena si sistema trova lavoro anche a te io penso immediatamente a quella battuta che chissà di chi era.
La battuta faceva così: il razzismo sarà finito quando si potrà dire che un negro è uno stronzo. Possiamo dunque dire che la frociaggine (cit. papale) è finita quando anche i busoni hanno cominciato a piazzare i congiunti, realizzando la profezia di Checco Zalone: sono tali e quali a noi, noi normali.
Quando mi hanno detto di «pederasta» ho – io ottimista, io sognatrice, io che vivo in un mondo in cui le parole si usano per quel che significano – chiesto se stessero dicendo che andava coi ragazzini. No, mi hanno detto, è che usano parole degli anni Cinquanta. Ah, dicono «pederasta» per dire «busone», non per dire «pedofilo»: ma tu pensa che sciatteria, chi se la sarebbe mai aspettata.
Michele Serra è rimasto colpito dal fatto che, per giustificare l’epiteto, il tizio che l’ha usato avesse detto d’aver riportato il «sentiment» della base. «Mettere nella stessa frase “pederasta” e “sentiment” è quasi un capolavoro: fotografa un’anima arcaica, incallita nei suoi pregiudizi, dentro un involucro finto-moderno, che dicendo “sentiment” invece di opinione si sente in regola con la neolingua dell’aziendalismo e della pubblicità», ha scritto. Io non sono così convinta.
Io temo che dicano «pederasta» e «sentiment» con la stessa noncuranza con cui dicono «sdoganato» di cose mai state ferme in dogana, o «radical chic» di insegnanti di lettere col mutuo; con la sciatteria con cui parlano una lingua a orecchio della cui offensività ci si preoccupa per le ragioni sbagliate: io sono a favore dell’offendere, ma volontariamente.
Gli abitanti di questo secolo usano le parole talmente a casaccio che quando qualcuno s’offende poi trasecolano, non l’avevano fatto apposta, si scusano sinceramente sorpresi dal fatto che le parole significhino cose precise: loro mica ci hanno messo l’intenzione, è solo che non riescono a fare con cura niente, parlano con la distrazione con cui il chirurgo ti lascia le garze nella pancia e il barista ti fa un cappuccino imbevibile.
Hanno il feticcio della laurea, i dottorati in bio, i genitori che li hanno mantenuti fino a quarant’anni acciocché potessero avere titoli di studio da incorniciare in salotto, ma poi quando Alessandro Giuli dice quattro frasi da studenti di filosofia ridono come tredicenni imbarazzati e dicono «supercazzola». Pietro Germi, scusali, tu che li avevi capiti da prima, tu che li avevi pittati così bene da illuderli di stare dalla loro parte. (Io intanto scuso preventivamente tutti quelli che riterranno di notificarmi che “Amici miei” era di Monicelli).
Naturalmente questa destra serve soprattutto ad alimentare la brutta televisione, compito che alla sinistra di questo disastrato secolo riesce chissà perché assai peggio. Quindi un fiorire di talk su Giuli col capo di gabinetto gay che forse ha piazzato il marito (a quanto capisco si sarebbe limitato a rinnovargli un contratto già in essere da molti anni, ma un po’ mi piange il cuore a privarlo della credenziale che lo rendeva tale e quali a noi, noi italiani etero che piazziamo i parenti).
“Report” promette grandi rivelazioni tra cui «un nuovo caso Boccia» per la prossima puntata («un nuovo caso Boccia» è il nuovo «accattatevill’»), e a me viene in mente quella volta che un americano mi disse che il programma di John Oliver lo guardi pensando «che bravi» finché non parlano di un tema che conosci, e quella è in genere la puntata di fronte alla quale ti chiedi come hai potuto finora credere a questa pecionata (come si dice «pecionata» in inglese, si chiederanno i miei piccoli lettori). «Ah, è il vostro “Report”», avevo risposto io, e lui non aveva capito.
L’altra sera, in quello zoo di vetro intitolato “Otto e mezzo”, si parlava dell’omofobia di quelli che a destra avevano voluto le dimissioni di Spano. In rappresentanza di Facebook – «Non mi aspettavo il successo che questo post ha avuto» – Annalisa Terranova, in rappresentanza di Instagram Andrea Scanzi, in rappresentanza della chat del 25 aprile Massimo Giannini, e in rappresentanza di Provita, unico dei quattro social di cui nessuno sappia il numero degli iscritti, Jacopo Coghe.
«Lei s’immagini, mutatis mutandis», dice Coghe, e a me manca tantissimo Germi («mutatis mutandis» non viene liquidato come supercazzola: tecnicamente lo sarebbe – è un riempitivo sonoro, non aggiunge nulla – ma il latino è un crampo dell’intelletto così diffuso che pare normale).
Centinaia di migliaia di associati, giurava Coghe, sembrando il pubblico di “Ok, il prezzo è giusto” quando urlava «Cento, cento, cento», non riuscendo poi a fornire un numero preciso. Gruber insisteva, ma lui niente, e francamente non capisco perché: gli iscritti di Provita sono come gli streaming di Netflix, puoi millantare qualunque enormità, tanto come ti smentisco?
Non si può trasformare il primo partito d’Italia in un partito confessionale, ammoniva la Terranova, e io sognavo un paese migliore, un secolo migliore, un parterre migliore in cui ci fosse qualcuno di abbastanza spiritoso da rispondere «Certo, mica siamo Israele».
Tutti (tranne Coghe) stigmatizzavano l’uso retrivo di «pederasta», e io pensavo a Tony Blair, che un mese fa ha detto ad Aldo Cazzullo «mi colpisce la disinvoltura con cui oggi molti leader usano Whatsapp, Telegram, Signal e varie piattaforme per comunicare».
L’occidente è finito il giorno in cui, per essere acclamato come statista di vaglia e gigante del pensiero e dell’azione, è bastato capire che forse non era il caso di dire cose istituzionali nelle varie chat dei Finzi Giannini.