di Mario Lavia
Arriva il populismo sindacale
Il segretario della Cgil dovrebbe stare attento alle parole usate durante lo sciopero generale.
In un momento di crisi economica e di tensione sociale, parlare con i toni usati ieri potrebbe essere equivocato da qualche persona facilmente influenzabile
«Vogliamo rivoltare il paese come un guanto. Possiamo dire, dopo la giornata di oggi, che questo governo non rappresenta la maggioranza di questo Paese». La cosa preoccupante non è solo che Maurizio Landini parli come uno studente del Settantasette o un capetto dei Cobas, ma che nella Cgil non ci sia nemmeno uno che si alzi per dirgli di cambiare registro. Ormai il danno è fatto.
A parte che delegittimare il governo, e dunque il Parlamento che lo esprime, che non sarebbe «rappresentativo della maggioranza del Paese» è un pochino pericoloso, «rivolta» è stata la parola d’ordine dello sciopero generale di ieri, un termine che con tutta la sua carica di ambiguità, per non dire di peggio, ha oscurato il valore di una giornata di protesta che ha coinvolto centinaia di migliaia di lavoratori.
Per dire, il segretario di una organizzazione che si chiama “Rifondazione comunista”, Maurizio Acerbo, ha twittato: «Da troppo tempo non c’è una rivolta sociale. Tifiamo rivolta». Ora, costui non conta niente, ma forse quelli che ieri hanno fomentato i disordini a Torino magari sguazzano meglio in un clima reso caldo anche dalle parole del segretario della Cgil: non ne siamo sicuri, ma può essere.
D’altronde la tensione dell’altro giorno a Milano è stata dai media prontamente battezzata come «la rivolta di Corvetto». Le parole sono importanti. Questo mélenchonismo di Landini può essere una spia della sua voglia di condizionare la sinistra italiana. Ma «rivolta» non è una parola del vocabolario del movimento sindacale italiano. Gli operai in carne e ossa non parlano così. Anzi, è un termine aborrito non solo dai riformisti ma anche dai rivoluzionari perché allude alle jacqueries, alla agitazione estremista, alla protesta di un giorno. Magari violenta.
Infatti il sindacato italiano non si è mai sognato di rivoltarsi, ma quando mai i grandi leader sindacali hanno usato questa parola. Chi si sta rivoltando nella tomba sono i Lama, i Trentin, i Del Turco, gli Epifani, i Di Vittorio.
Neanche un minimo di memoria storica riesce ad arginare questo populismo sindacale che alligna da qualche tempo al vertice della Cgil, in parallelo con l’avvento del populismo politico giallo-verde che oggi, tendenzialmente in crisi, potrebbe trovare uno sbocco ancora peggiore in forme di estremismo legittimate dagli slogan del principale sindacato italiano. Bisogna stare attenti, perché il Paese è nervoso più di quanto si creda. La crisi è reale e l’Italia è ferma, con un Prodotto interno lordo stimato a più zero virgola sei, cioè niente.
Sarà un inverno tosto, altro che la propaganda di Giorgia Meloni. E “L’uomo in rivolta” di Albert Camus che Landini ha regalato alla presidente del Consiglio, pensando di fare bella figura, non c’entra assolutamente nulla con la protesta sindacale e politica, è un testo filosofico-letterario di una certa difficoltà che passa dai Vangeli a Dostoevskij a Lenin secondo una certa lettura dell’esistenzialismo: ma di che parliamo?
In momenti come questi la protesta, proprio perché ha mille ragioni, deve essere incanalata nei binari della politica e della razionalità. I sindacati seri a questo servono. Per le rivolte ci sono i gilet gialli. Qualcuno lo faccia capire a Maurizio Landini prima che la cosa scappi di mano.