Piccola posta
Anche a tenersi al di qua della terminologia, si deve constatare un effetto: che il campo delle reazioni si sia andato restringendo ai due poli opposti: il “genocidio da punire dal fiume al mare”, e “il diritto senza riserve di Israele all’autodifesa”
Presentando il rapporto su Gaza di Amnesty International, la sua segretaria generale, Agnès Callamard, ha dichiarato: “C’è un genocidio in corso. Non ci sono dubbi, non abbiamo nemmeno un dubbio dopo sei mesi di ricerca accurata”.
Il rapporto elenca una lunga serie di prove del suo assunto, dai bombardamenti sui civili e su scuole e ospedali, alle dichiarazioni dei governanti e dei responsabili militari israeliani, alla limitazione dell’assistenza primaria alla popolazione, alle continue evacuazioni forzate.
Com’è noto, l’imputazione di genocidio era stata accolta come plausibile dalla Corte internazionale di giustizia, e là aspetta. Il Papa Francesco l’ha appena raccolta richiamandosi, per nicodemismo, a chi ha la competenza di indagare se a Gaza stia avvenendo un genocidio. Liliana Segre ha appena cercato di ridefinire le (due) condizioni che separano i crimini di guerra israeliani dal genocidio, e di difendere in extremis l’interdizione crollata.
Fatta senz’altro propria dal grosso delle manifestazioni internazionali di solidarietà con la Palestina, l’accusa di genocidio è sostenuta con forza da studiosi israeliani come Amos Goldberg, docente di storia ebraica e specialista di storia dell’Olocausto a Gerusalemme.
La reazione ufficiale è stata durissima in Israele, dove contro il primo ministro Netanyahu e l’ex ministro della difesa Gallant è stato emesso un ordine di arresto del Tribunale penale internazionale per crimini di guerra.
Dal rapporto di Amnesty si è dissociata la sezione israeliana dell’organizzazione, e dal suo comitato internazionale si sono dimessi due membri. Non è il primo caso.
All’inizio di agosto 2022 Amnesty pubblicò un rapporto che accusava l’esercito ucraino, senza spingersi all’addebito di usare scudi umani, di mettere in pericolo i civili ucraini utilizzando centri ed edifici abitati come basi per le proprie forze armate. Anche allora la sezione ucraina di Amnesty dissentì, e molti giornalisti e conoscitori sostennero la parzialità o la scorrettezza del rapporto, spiegando per esempio che le scuole erano chiuse alla loro funzione normale. Si trattò comunque, in Ucraina, di una controversia incomparabilmente meno drammatica.
La Convenzione sul genocidio nella sua fattispecie tecnica comporta una conseguenza pratica enorme, poiché impone a chi ne abbia i mezzi di intervenire a ostacolarlo o a mettervi fine. E’ la ragione per la quale gli Stati scelgono di ignorare la perpetrazione di un genocidio per potersene astenere, come fu il caso di Clinton riguardo al genocidio dei tutsi in Ruanda – seguito dalle plateali esibizioni postume di pentimento di Clinton in visita a Kigali: “Mai più genocidio!”.
E’ stata anche la ragione che ha suggerito a Biden, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, di evocare il genocidio, che gli permetteva di disporre l’invio di armamenti senza passare attraverso il Congresso. La ragion di stato sa domesticare il rigore del diritto.
Ma sulla definizione di genocidio si combatte una partita morale (e in subordine propagandistica) addirittura più importante di quella giuridica. Le principali conquiste del diritto internazionale furono il frutto – tardivo, del resto: a Norimberga il genocidio non fu evocato, benché il termine di Lemkin, riferito all’origine allo sterminio turco degli armeni, risalisse al 1944.
Si chiamano Convenzione contro la tortura e Convenzione contro il genocidio, ma la loro formulazione si è ampliata a definire rispettivamente la prevenzione “della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti”, e il “genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra, e reati connessi”.
Sono altrettante determinazioni che distinguono, ma non intendono stabilire una gerarchia formale di gravità, quanto al diritto. Quanto alla storia e al senso comune, la gerarchia c’è ed è pesantissima. E’, nell’accezione comune e soprattutto nella sensibilità delle vittime, come se la rinuncia ai nomi di genocidio e, rispettivamente, di tortura, suonasse come un mancato riconoscimento, un’attenuante maligna e un compromesso pressoché complice.
Io, che ne scrivo e per un’ennesima volta, sono orribilmente combattuto. Dico a me stesso che chiamerei genocidio quello che è avvenuto a Gaza e continua ad avvenire ogni giorno, se non si trattasse di Israele. Ma so che la limitazione, “se non si trattasse di Israele”, è almeno ambigua. Vuol dire, per me e la mia formazione, la storia dell’ebraismo, la Shoah, il 7 ottobre, i rapiti, lo slogan sulla cancellazione di Israele, l’albergo del Cadore che non accetta ebrei per razzismo o per paura.
Vuol dire che l’antisemitismo esiste, ed è una spina conficcata nelle viscere dell’umanità. Ma per ognuno di questi argomenti c’è l’argomento opposto. Se non fosse Israele non è una formula ipocrita o faziosa. Ma il fatto che sia Israele, se non è un’aggravante – “come i nazisti” – non è un’esimente.
Tuttavia, anche a tenersi al di qua della terminologia, una conseguenza grave si deve constatare. Che il campo delle reazioni si sia andato restringendo ai due poli opposti: il “genocidio da punire dal fiume al mare”, e “il diritto senza riserve di Israele all’autodifesa”.
Ciò che fa terra bruciata di tutto ciò che sta nel mezzo, la realtà di un giorno dopo un giorno, un massacro dopo un massacro, un ostaggio dopo un ostaggio, una paura e una bambina e una violenza e una tortura e un crimine di guerra e un crimine contro l’umanità dietro l’altro. Tutto è consumato, a ciascuno il suo.
L’altro giorno Moshe Yaalon, già capo dell’esercito, già ministro della Difesa al tempo della guerra di Gaza 2014, ha detto che il governo di Netanyahu sta compiendo una pulizia etnica ed esponendo i suoi militari a venir giudicati come criminali di guerra.
Pulizia etnica è a sua volta un’espressione ambigua. E’ stata coniata, o comunque largamente divulgata, in Bosnia e soprattutto contro il socialnazionalismo serbo e serbo-bosniaco (ma anche lo sciovinismo croato), con una doppia utilità.
Quella di denunciare la volontà razzista di fare tavola rasa del nemico (paradossale, perché il nemico era diverso tutt’al più di religione, non di etnia, se questa non si riduca alla cultura) e insieme di stare un passo al di qua dalla sacra e maledetta “parola G”, il Genocidio.
Parole e atti del governo di Israele si attagliano irreparabilmente alla nozione di pulizia etnica, a Gaza e in Cisgiordania.