La Siria non è un Paese sicuro, ma ai rifugiati siriani chiudiamo le porte (avvenire.it)

di Maurizio Ambrosini

I governanti europei e i nostri sembrano avere in 
mente un solo problema: fermare i flussi 
di profughi. 

Così si chiudono di nuovo le frontiere ai richiedenti asilo, stavolta quelli da Damasco

Mentre il ministro degli Esteri Tajani, dando voce a preoccupazioni diffuse, chiede ai nuovi governanti siriani garanzie di rispetto dei diritti delle minoranze, tra cui quelle cristiane, il governo italiano chiude le porte ai richiedenti asilo provenienti da quel Paese.

È il primo atto politico nei confronti del nuovo corso di Damasco, emanato beninteso in buona compagnia europea. Come se interessasse soltanto che da quel Paese non giungano più fastidiose richieste di protezione umanitaria. Invece di preoccuparsi dell’instaurazione di un regime democratico, impegnato nel rispetto delle libertà fondamentali e dei diritti umani, alieno da propositi di vendetta nei confronti degli ex oppressori, i governanti europei sembrano avere in mente un solo problema: fermare i flussi di profughi.

Anche a costo di attribuire una patente di Paese sicuro a un regime che non ha ancora neppure cominciato a rivelare quali saranno le sue autentiche linee di condotta, mentre già giungono notizie inquietanti dal confine interno con la regione nord-orientale del Rojava sotto controllo curdo.

Come per altri tentativi di transizione da governi oppressivi a un nuovo ordine tutto da costruire, dall’Unione Europea non giunge una proposta ambiziosa e costruttiva, capace di combinare apertura politica, aiuti economici e garanzie democratiche. A noi sembra premere soltanto che non arrivino più rifugiati da accogliere.

La scelta di una linea di respiro così corto da parte dei governi Ue appare ancora una volta dettata dalla percezione di un’opinione pubblica vista come ostile ai rifugiati provenienti dal Sud del mondo e incline ad appoggiare agende politiche sovraniste. I leader europei sembrano oggi soprattutto ansiosi di mostrarsi capaci di chiudere le frontiere a chi fugge, di ridurre l’accoglienza, di accrescere i respingimenti.

Pure profughi come quelli siriani che, se riuscivano a toccare terra sul suolo dell’Unione, ottenevano quasi sempre lo status di rifugiati riconosciuti, sono diventati da un giorno all’altro falsi rifugiati e ospiti sgraditi.

Se inoltre nell’Ue, almeno sul piano numerico, la preoccupazione di ridurre il numero dei siriani candidati all’asilo può trovare una certa giustificazione (184.500 prime richieste d’asilo da parte di cittadini siriani nel 2023, prima nazionalità in graduatoria), questo argomento nel caso italiano non tiene: i siriani che hanno ottenuto la protezione internazionale l’anno scorso sono stati meno di 300 (Fondazione Ismu, su dati Eurostat), e la Siria non rientra tra i primi venti Paesi di origine dei richiedenti. Siamo ancora una volta nel dominio della propaganda a fini di consenso interno, non di fronte a un problema reale che richiede delle risposte.

La precipitosa sbiancatura dei nuovi potenti di Damasco stride poi con le notizie che arrivano dal Medio Oriente: dal Libano sconvolto dalla guerra migliaia di profughi siriani stanno tornando verso il Paese di origine, mentre in Turchia Erdogan cerca ugualmente di indurli al rientro.

Sarebbe il caso, se il Paese trovasse una certa stabilità democratica, d’immaginare un grande piano per il ritorno volontario assistito dei rifugiati: volontario, però, per chi ha desiderio e capacità di rientrare in patria, non forzato. Basti pensare a quanti hanno con sé figli che nel frattempo hanno intrapreso un percorso scolastico nella lingua dei Paesi riceventi, e per i quali il ritorno sarebbe uno sradicamento.

Il rientro nei luoghi di origine è una delle soluzioni possibili al dramma degli esuli, ma a certe condizioni: che sia scelto liberamente, che si svolga in condizioni di sicurezza, che sia accompagnato da uno sforzo di pacificazione tra le fazioni, che avvenga in condizioni di sostenibilità economica. In caso contrario, i profughi continueranno a partire e a bussare alle nostre porte.

Forse ora le troveranno ufficialmente chiuse, ma non per questo torneranno indietro.

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