QUANDO CALVINO E SCIASCIA LITIGARONO SUI CITTADINI CHE NON FECERO I GIUDICI POPOLARI CONTRO LE BR (thevision.com)

di MATTIA MADONIA

Siamo nel 1976 e si avvicina il processo in Corte 
d’Assise a Torino contro Renato Curcio e i 
vertici delle Brigate Rosse. 

Avviene però un fatto imprevedibile: gli imputati dichiarano di non avere nulla da cui difendersi e revocano il mandato ai loro difensori. Inoltre minacciano apertamente gli avvocati intenzionati a diventare difensori d’ufficio. Secondo il Codice di procedura penale, in seguito alla mancanza dei difensori d’ufficio è il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del foro di competenza a dover ricoprire quel ruolo.

Quell’uomo è Fulvio Croce, che decide di accettare l’incarico. Il 28 aprile 1977, cinque giorni prima dell’inizio del processo, quattro terroristi delle Brigate Rosse raggiungono Croce sotto il suo studio legale e lo uccidono con cinque colpi di pistola.

Questi sono gli anni più intensi e violenti dell’azione delle Br. Dopo le prime rivendicazioni a inizio decennio e la costruzione della propria ideologia, ovvero la lotta armata contro lo Stato accusato di derive imperialiste e capitaliste, nonché l’intenzione di instaurare una dittatura del proletariato di stampo marxista, l’organizzazione viene colpita nel 1974 con gli arresti dei suoi esponenti storici, su tutti Renato Curcio e Alberto Franceschini, per mano del generale dei Carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa.

Durante la preparazione del processo di Torino, le Br finiscono sotto il comando di Mario Moretti, espressione della fazione più dura dei brigatisti, che vuole abbandonare la propaganda e trasformare il movimento in un’organizzazione paramilitare per portare avanti azioni eversive e violente contro lo Stato e i suoi rappresentanti. All’inizio del processo del 1974, l’anima militare delle Br ha ormai preso il sopravvento su quella politica.

Dopo l’omicidio di Croce, quando vengono designati i giurati popolari per il processo, molti dei sorteggiati si sottraggono al compito. Sedici di loro presentano un certificato medico in cui vengono indicati come “affetti da sindrome depressiva”, dunque inadatti per svolgere la loro funzione nella giuria popolare.

Sul reale motivo, la paura, inizia un dibattito feroce tra i principali intellettuali italiani. I cittadini sono terrorizzati di fronte alle minacce, alle possibili ritorsioni, agli omicidi che si ripetono negli Anni di piombo; non avere il coraggio necessario per servire lo Stato li porta a essere definiti da alcune penne prestigiose dei “vili”, se non addirittura degli alfieri della diseducazione civica. A queste accuse si contrappongono gli scrittori Leonardo Sciascia ed Eugenio Montale.

I più importanti intellettuali dell’epoca non sono soltanto degli spettatori del loro tempo, ma partecipano attivamente al dibattito politico elevando il significato di “cosa pubblica”. L’impegno coinvolge in particolare quelli di sinistra, spesso in disaccordo anche tra loro per la frammentazione dovuta al parere sulle Br, che pur avendo un programma politico condivisibile in alcuni punti lo portano avanti con un’escalation di violenza terroristica che mina la possibilità di appoggiarli.

Il piano del dibattito si sposta quindi sulla presa di distanza dall’azione criminale delle Br, ma anche dai silenzi, dalle complicità  e dall’opacità dello Stato, tra Piazza Fontana, la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, e l’apparato statale diventato un’emanazione degli interessi della Democrazia Cristiana al potere … leggi tutto

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *