di Francesco Fasani e Jacopo Mazza
In Europa e Gran Bretagna la crisi da pandemia mette ad alto rischio di disoccupazione più di 9 milioni di lavoratori migranti.
In Italia la situazione è particolarmente grave per le caratteristiche della nostra industria. Le previsioni.
Individuare i lavoratori “a rischio”
I costi umani della pandemia sono enormi, le conseguenze economiche sono altrettanto drammatiche. Se la prima ondata del virus ha portato a una diminuzione globale del Pil del 10 per cento nella prima metà del 2020, gli effetti di quelle successive si devono ancora vedere. Quello che è già certo sono le conseguenze diseguali di questa crisi, che colpisce più duramente alcuni settori e occupazioni e minaccia gravemente l’occupazione dei gruppi di lavoratori già relativamente più vulnerabili, come quelli atipici e quelli poco istruiti, i giovani, le donne.
E, naturalmente, i lavoratori stranieri. Questi ultimi sono generalmente più esposti alle fluttuazioni economiche rispetto ai nativi e possono contare su una più fragile rete di protezione in caso di licenziamento.
L’evidenza per gli Stati Uniti suggerisce che il loro tasso di occupazione abbia sofferto in modo particolare a causa della pandemia, ma si sa ancora poco di quale sia la situazione in Europa.
In un recente studio, proponiamo una nuova misura dell’esposizione al rischio di licenziamento nell’area Ue14 e Gran Bretagna. Il nostro indicatore si basa su quattro caratteristiche del posto di lavoro che consideriamo cruciali nel predire la stabilità dell’impiego durante la pandemia.
In primo luogo, consideriamo la distinzione tra lavoratori essenziali e non. Vista l’importanza riconosciuta alla loro attività, i lavoratori impiegati in occupazioni essenziali hanno potuto continuare a lavorare durante i lockdown, anche se con ritmi e modalità diverse dal solito. La seconda dimensione è la durata del contratto di lavoro e rileva l’ovvio maggior rischio di perdita del posto per i lavoratori a tempo determinato.
Il terzo elemento valuta un aspetto chiave nello stimare quanto vulnerabile sia una determinata professione agli effetti economici della pandemia, ossia la possibilità che le mansioni specifiche di quella occupazione possano essere svolte da casa. Il quarto e ultimo fattore guarda alla resilienza dell’intero settore di impiego alla pandemia, che è tanto maggiore quanto minore è il livello di interazione diretta necessaria sul posto di lavoro con colleghi e clienti.
Combinando i quattro elementi possiamo assegnare ciascun lavoratore a cinque categorie di rischio di perdita del posto di lavoro. Aspettandoci che i “lavoratori essenziali” siano meno esposti al rischio di licenziamento rispetto agli altri, assegniamo solo i lavoratori “non essenziali” a quattro livelli di rischio: i) molto elevato; ii) elevato; iii) moderato e iv) basso, a seconda del numero di dimensioni rispetto alle quali risultano vulnerabili … leggi tutto