Il razzismo in fotografia (iltascabile.com)

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Il mito del fotoreporter, gli automatismi, 
identity politics e decolonizzazione dello 
sguardo: una conversazione.

Quindici anni fa per un reportage di viaggio commissionato da una rivista mainstream, mi ritrovai insieme a un amico a Tijuana. La tappa precedente era stata San Diego. Arrivare a Tijuana da San Diego esaudiva esattamente le nostre aspettative in fatto di “vita vera”, “decadenza” e “pericolo”.

A Tijuana tirai fuori la macchina fotografica per ritrarre delle prostitute giovanissime, palesemente minorenni, ragazzine, che adescavano clienti in strada sotto lo sguardo connivente della polizia, nonché il nostro, ossia quello dei turisti. Nel mio ruolo improvvisato di fotoreporter mi sentivo particolarmente audace perché avremmo potuto consegnare alla rivista non solo le immagini dell’on the road per gli Stati Uniti, ma anche quello spaccato di neorealismo messicano.

Le cose andarono diversamente. Nel giro di qualche minuto, fui avvicinata da un poliziotto che mi sequestrò la macchina fotografica. A dirla tutta, cominciò anche a insinuare che avessimo dietro della droga (non avevamo niente), poi l’insinuazione divenne un’accusa e il messaggio esplicito. Finimmo per dargli dei soldi (mi sembra cento dollari), e ci lasciò stare, ma mi costrinse a cancellare le foto che avevo fatto alle prostitute.

Fu uno strano momento quello in cui io e un uomo in divisa guardavamo insieme sullo schermo di una macchina digitale i corpi fotografati di quelle ragazzine seminude per poi eliminarne l’esistenza.

Benché fosse un palese atto di corruzione da parte della polizia messicana, oggi devo dire che sono felice di aver cancellato le foto. Che stavo cercando di fare? Ritrarre quelle ragazze non faceva parte di alcun lavoro di denuncia o inchiesta (e anche in quel caso: sarei stata legittimata a farlo?), corrispondeva piuttosto al desiderio narcisista di avere delle immagini “forti”, e in un certo senso “più esotiche” da consegnare a un giornale.

Non mi ero minimamente posta né il problema di avere il consenso da parte dei soggetti fotografati, né mi ero fatta domande su quale fosse in quel momento il mio “sguardo” su quei corpi. In effetti non mi ero proprio fatta domande in generale.

Nel suo celebre saggio Davanti al dolore degli altri, Susan Sontag scrive:

Attraverso la voce della Magnum, la fotografia si dichiarava un’impresa a carattere globale. La nazionalità del fotografo e quella della testata a cui era affiliato erano, in linea di principio, irrilevanti. Il fotografo poteva avere qualunque origine. E la zona di sua competenza era il “mondo” leggi tutto

(Annie Spratt)

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