Leggere Jill Abramson è come attraversare gli ultimi vent’anni della nostra vita, almeno nel rapporto con i giornali, o meglio, con l’informazione.
E c’è una data precisa che come l’anno zero segna non simbolicamente il cambiamento di fase: l’11 settembre 2001. “I giornali distribuiti quel martedì mattina – scrive Abramson – diventarono obsoleti non appena si schiantò il primo aereo e l’intera popolazione degli Stati Uniti si trovò a dipendere dalle trasmissioni televisive e dalle notizie online”.
Ognuno ha il suo ricordo, di quei momenti. Io ero alla Fnac di place d’Italie a Parigi, stavo comprando un televisore per l’ufficio di corrispondenza di La Stampa. Ero di fronte a un’intera parete di schermi accesi, ognuno collegato con una diversa emittente dal mondo. E su quella parete, nel giro di pochi minuti, attraversata da un unico impulso, proveniente da un unico punto del pianeta, come in un domino elettronico, gli schermi si sono messi a lampeggiare a catena riproducendo infinite volte lo schianto sulle Twin Towers.
L’istinto mi diceva di correre al giornale e far la mia parte nel racconto di quella giornata. Ma di fronte a quelle immagini, alla storia, alla vita, alla morte qual era esattamente la mia parte?
Tutto si stava consumando su quegli schermi che in quello stesso momento centinaia di milioni di persone stavano guardando come me nelle case, negli uffici, nei bar, nei negozi di apparecchi televisivi, di giorno o di notte in ogni parte del pianeta. Il web registrò un record assoluto di consultazioni, molti siti andarono in tilt. Da quel momento e per i mesi successivi il New York Times dispiegò sul terreno il massimo delle forze giornalistiche.
Uno stuolo di cronisti e di analisti che con i loro servizi in un solo anno conquistarono il record di ben sette premi Pulitzer, il massimo riconoscimento giornalistico del mondo. E l’editore Sulzberger, per quanto il giornale fosse da tempo in crisi sotto l’incalzare di Internet e la redazione avesse già subito pesanti tagli, decise comunque di aggiungere un dorso quotidiano, “A Nation challenged” (una nazione sotto attacco), senza un briciolo di pubblicità, per alimentare con storie e analisi il racconto di quella che sembrava a tutti la notizia del secolo. Ma intanto tutto stava cambiando.
Jill Abramson, 67 anni, oggi insegna giornalismo alla Harvard University ed è editorialista del Guardian; ha lavorato al Wall Street Journal e al New York Times, di cui è stata – prima donna – direttrice esecutiva (executive editor) tra il 2011 e il 2014. Da allora ha lavorato a un libro che si può leggere come un saggio sulla rivoluzione nell’informazione, ma che è soprattutto un reportage molto personale dentro la macchina del giornalismo americano.
È uscito due anni fa negli Stati Uniti con il titolo Merchants of truth suscitando varie polemiche. Abramson era stata licenziata dal NYT, accusata dalla redazione per l’eccessiva durezza e dalla proprietà per l’incapacità di convivere con la necessità di trovare nuove fonti di ricavo. Il libro è uscito ora in Italia per l’editore Sellerio tradotto da Andrea Grechi e Chiara Rizzuto con lo stesso titolo americano Mercanti di verità.
Sottotitolo: “la grande guerra dell’informazione”. Una lettura avvincente di quasi 900 pagine attraverso questi anni nei due storici quotidiani, NYT e Washington Post, e nei due media più emblematici della rivoluzione digitale, Buzz Feed e Vice … leggi tutto