di Marco Belpoliti, Elio Grazioli
Il 10 agosto del 1999 abbiamo incontrato Vincenzo Consolo nella nuova casa dove si era trasferito da qualche tempo dopo gli anni trascorsi in via Volta,
in una abitazione dove mi era capitato di andare a trovarlo e di conversare varie volte con lui. Mi aveva coinvolto persino in un documentario su Mastronardi che aveva girato per la Rai dove lavorava.
Avevo anche cominciato a recensire i suoi libri a partire da Nottetempo, casa per casa del 1992, con cui poi aveva vinto il Premio Strega, e a presentarli insieme a lui. Stavamo preparando io e Elio Grazioli un volume della collana di Riga edita allora da Marcos y Marcos, il numero 17 della serie, intitolato Italia due, in cui volevamo fare il punto su arte, letteratura, critica, teatro, nel passaggio al nuovo millennio.
Il volume seguiva un precedente libro, Italia, di cinque anni prima composto di un fitto epistolario tra i due curatori – io e Elio – e una serie di autori che appartenevano a varie generazioni che avevano operato negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta, una corrispondenza che insieme a testi e interventi occupava oltre 400 pagine: Martegani, Moresco, Cabiati, Guaita, Luigi Grazioli, Cingolani, Claudia Castellucci, Romeo Castellucci, Codeghini, Pancrazzi, Piersanti, i Fanny e Alexander, Gorret, Sedmach, Messori, Salabelle, Ivano Ferrari, Cataluccio, Ercolani e molti altri ancora. Per Italia due avevamo pensato di intervistare Alberto Arbasino, Giulio Paolini, Manlio Brusatin, Dadamaino, Mario Lavagetto, Giuliano Scabia, Daniele Del Giudice e appunto Vincenzo Consolo, maestri a cui guardavamo con attenzione da tempo.
Il resto del volume raccoglieva interventi di molti autori: teatro, poesia, arti visive, fotografia, saggismo. Il nuovo volume è uscito nell’aprile del 2000 e constava di 400 pagine. L’intervista con Consolo fu pubblicata solo in parte, e per un errore di impaginazione risultava monca.
A dieci anni dalla sua scomparsa abbiamo pensato di riproporla integralmente qui su doppiozero come un omaggio a uno scrittore che è stato molto importante per noi tutti in quella Milano che stava cambiando e per cui Vincenzo provava un grande dolore e delusione.
Ma la conversazione, come vedranno i lettori, si era soffermata più sugli aspetti del suo lavoro letterario che sul clima politico e culturale dell’epoca. (MB)
Di qua dal faro lei scrive: «Crediamo che oggi, per la caduta di relazione tra la scrittura letteraria e la situazione sociale, non si possano che adottare, per esorcizzare il silenzio, i moduli stilistici della poesia; ridurre, per rimanere nello spazio letterario, lo spazio comunicativo, logico e dialogico proprio del romanzo». Può spiegare meglio questa affermazione?
Per rispondere a questa domanda devo riandare a quelli che sono stati i miei primi passi, cioè al mio primo libro, La ferita dell’aprile. Allora, un po’ istintivamente, un po’ consapevolmente, avendo davanti una presenza letteraria come quella di Sciascia, ed essendoci poi stata l’esplosione di un fenomeno come quello di Lampedusa – i due avevano tentato una scrittura di estrema comunicazione, naturalmente con coloriture diverse –, il mio sguardo era rivolto verso la fascia occidentale della Sicilia, cioè verso una scrittura di tipo comunicativo, di tipo logico, perché mi interessava la letteratura che riflettesse la società e la storia.
Non m’interessava il mito in quel momento, non m’interessava, diciamo, l’abbandono lirico, a cui soggiacevano in massima parte gli scrittori della parte orientale dell’isola, che aveva una maggiore implicazione con la natura, e quindi una maggiore compromissione con il mito.
Per esempio uno scrittore come Verga, o come Vittorini, che da posizioni assolutamente storicistiche arriva a soluzioni formali di estrema liricità come in Conversazioni in Sicilia … leggi tutto