La grande sconfitta di questa settimana è quella che ha dimostrato di essere solo una specie deteriore di politica,
Ora che tutti i reduci si issano sulle trincee, laceri e contusi, per sventolare la bandiera e cantare vittoria, ci sono due modi più intelligenti di festeggiare lo scampato pericolo. I l primo è alzare gli occhi al cielo e ringraziare ancora una volta il santo protettore dell’Italia; il secondo è abbassare lo sguardo sulle macerie fumanti della battaglia che hanno ingaggiato, e fare il conto dei morti e dei feriti, per cominciare a capire come si possa ricostruire un edificio politico bruciato fino alle fondamenta, un sistema ormai patologicamente non più in grado di prendere decisioni.
Il paesaggio è irriconoscibile. Il centrodestra non c’è più. E stavolta non è una metafora, è una constatazione. Per molto tempo non vedremo più su un palco insieme Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Il tweet della leader di Fratelli d’Italia delle 11.38 di ieri mattina, «Non voglio crederci», con cui ha salutato la decisione di Salvini di pregare Mattarella per un altro mandato, rimarrà a ricordarci data e ora del divorzio nella destra.
L’immagine di Elisabetta Casellati che esce piegata e scossa dall’Aula del Senato, inseguita dall’ingiuria di una settantina di franchi tiratori, segna il momento fatale della ritirata. Il comunicato della sera di venerdì con cui Forza Italia annunciava che di lì in poi avrebbe trattato per sé, sanciva che non c’è più un Capitano. Salvini non è più il capo di niente, se non della Lega. E non è nemmeno chiaro fino a quando, dopo una tale sconfitta sul campo.
Azzardiamo un pronostico: se continua così, una riforma elettorale in senso proporzionale diventa paradossalmente una necessità per Salvini e per Meloni: insieme non possono più stare.
Ma pure il paesaggio del «campo largo» è devastato. Il surrogato di centrosinistra che Letta sperava di mettere in piedi per le prossime elezioni ha perso una delle due ruote del carro: Giuseppe Conte. L’ex avvocato del popolo, al momento culminante, ha sentito il richiamo della foresta, e ha tentato il colpo con Salvini e Meloni, in un’inedita alleanza verde-nero-gialla. L’incolpevole Elisabetta Belloni, capo dei servizi segreti candidata a capo dello Stato, è stata a un passo dall’essere usata per spaccare la maggioranza di governo e il Parlamento.
Si deve alla prontezza di riflessi democratici di Matteo Renzi e Luigi Di Maio (ormai capo indiscusso della fetta più grossa dei Cinque Stelle), e anche alla resistenza nella notte della Repubblica di politici più sottotraccia, da Speranza a Franceschini, da Quagliariello a De Pretis, da Toti a Tajani, se ieri mattina l’Italia non si è svegliata senza più un governo e senza ancora un capo dello Stato.
Enrico Letta è riuscito a tenere insieme il Pd, e questo è già un miracolo; e soprattutto a salvare Draghi, anche se al governo e non al Quirinale come avrebbe voluto, evitando l’avventura. Il suo è stato un efficace gioco di rimessa, con una sola defaillance: l’esitazione di un paio di ore con cui ha aperto la strada all’ultima manovra Salvini-Meloni-Conte, offrendo loro nella lista il nome della Belloni … leggi tutto