Sindaci ucraini, una delusione per Putin (lavoce.info)

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Dall’inizio della guerra, l’esercito russo ha 
rapito sedici sindaci ucraini, tutti sostituiti 
con commissari al servizio degli invasori. 

Le riforme in senso federalista dello stato ucraino erano state appoggiate da Mosca, che sperava di avvantaggiarsene.

Il federalismo ucraino

Nella guerra tra la Russia e l’Ucraina, le dinamiche belliche risentono inevitabilmente del progresso sociale, economico e istituzionale dei due stati. E i sedici sindaci rapiti (tanti sono secondo un elenco pubblicato dal canale Telegram di Kyiv Ucraina notizie) sembrano essere entrati a pieno titolo nel conflitto. Il fatto merita di essere sottolineato, nel tentativo di spiegarne le ragioni.

Le ultime elezioni amministrative in Ucraina si sono tenute il 25 ottobre del 2020: si è votato per l’elezione di sindaci, membri dei consigli comunali, distrettuali e regionali, così come dei capi delle comunità territoriali unite (“hromada”). Sono le prime elezioni su larga scala tenute dopo l’avvio della riforma del decentramento in Ucraina e di quella elettorale introdotte dalla “Verkhovna Rada”.

Il processo di decentramento amministrativo, cominciato nel 2015 dopo le rivolte di Euromaidan, ha ridotto il numero dei distretti da 490 a 136, di cui 119 sotto il controllo del governo ucraino e 17 controllati dai separatisti nei territori occupati del Donbass e nella Crimea, annessi alla Russia. Le comunità territoriali sono diminuite da 10 mila a 7 mila, di cui mille sono diventate comunità territoriali unificate. L’accorpamento ha garantito la possibilità di eleggere un nuovo governo locale, provvisto di potere esecutivo, e di trattenere nel territorio un’ampia parte delle tasse versate dagli ucraini.

Il governo locale ucraino è costituito da due sistemi basati sulle divisioni amministrative del paese; le relazioni concernenti l’organizzazione e l’attività degli enti del governo locale risultano disciplinate dalla costituzione ucraina e dalle leggi “Sull’autogoverno locale in Ucraina” e “Sulle amministrazioni statali locali”. Un primo sistema è costituito da organi locali decentrati del potere esecutivo statale che fungono da “agenti” subordinati e controllati dagli organi rappresentativi competenti (consigli locali) in materia di poteri loro delegati.

Le loro funzioni hanno natura statale (riflettono l’interesse statale), predeterminate da compiti e problemi di rilevanza statale. Il secondo sistema di autogoverno locale della comunità territoriale (“hromada amalgamata”) è formato da organi di governo municipale (autorità municipale e consigli locali).

Le comunità territoriali sono le corporazioni naturali di residenti locali che esercitano l’autogoverno direttamente o tramite le autonomie locali, si fondano su principi di auto organizzazione e non sono subordinate gerarchicamente ad altri enti di governo. Il sindaco del villaggio, del comune o della città è l’amministratore delegato della comunità locale a livello di villaggio (o associazione di più villaggi), eletto a suffragio ogni quattro anni.

Il fallito “blitzkrieg” e la delusione di Putin

Le riforme in senso federalista dello stato ucraino, auspicate dagli esperti Pavel Bykov, Olga Vlassova e Gevorg Mirzaïan, sono state accolte con favore anche dal governo russo (che, per motivi decisamente diversi, le ha caldeggiate fin dalla dichiarazione del suo Ministero degli Esteri del 17 marzo 2014), pensando di potere dialogare direttamente con le comunità locali ucraine, nel tentativo d’invertire la forza attrattiva della sirena Europa a favore di quella protettorata della Russia.

Per ragioni di geopolitica, Vladimir Putin e i suoi collaboratori si sono convinti che l’Ucraina stia prendendo una strada sbagliata e che, di conseguenza, il suo popolo vada liberato da un governo, non realmente rappresentativo, che non tutela la minoranza russofona – che nel paese è pari al 20 per cento, ma che nelle regioni dell’Est raggiunge oltre l’80 per cento della popolazione.

Ecco perché Putin, fin dai primi giorni dell’invasione, che pensava di risolvere in un “blitzkrieg” di tre giorni, si era illuso che i neo sindaci e i neo governatori si sarebbero piegati all’istante e che le comunità locali da loro amministrate si sarebbero consegnate al “liberatore”.

Così non è stato, sindaci e comunità locali si sono invece opposti all’invasore, attuando ogni forma di resistenza tenace e coraggiosa, pur nella consapevolezza dei propri limiti tecnici e militari.

I sindaci ucraini, ai quali sono state cedute dalle riforme quote consistenti di sovranità e di autonomia politica, sono così diventati obiettivi principali da rimuovere perché ritenuti responsabili di avere deluso le aspettative di Putin e perché considerati sgraditi megafoni di messaggi errati nei confronti delle medesime comunità locali che, all’indomani della svolta federalista dello stato ucraino, avrebbero dovuto emanciparsi dal pensiero unico maldestramente interpretato dall’europeista Volodymyr Zelensky.

La strategia di Putin era infatti quella di trasformare le città conquistate in repubbliche autoproclamate indipendenti, come Donetsk e Luhanks nel Donbass.

Appaiono eloquenti le dichiarazioni dei commissari compiacenti che subito hanno rimpiazzato i sindaci rimossi (liberamente e democraticamente eletti), che “in coro”, esordiscono davanti alle telecamere, dicendo non senza un certo imbarazzo: “bisogna accettare il sistema adattando la città alla nuova realtà”.

Il modello istituzionale che Putin vuole utilizzare, all’indomani della cessazione del conflitto armato, è quello di promuovere in tutte le città commissariate mirati referendum sull’autodeterminazione delle singole comunità locali (dall’esito scontato), al pari di quanto già avvenuto nel 2014 nella penisola di Crimea.

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