La follia di un’Italia che celebra la festa del 2 giugno mentre depreca la festeggiata (linkiesta.it)

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La Repubblica di prima

Meloni omaggia la nascita della democrazia repubblicana con un’invettiva contro «le ingerenze dell’alta finanza», ma è solo l’ultima arrivata nel coro di chi onora la fondazione mentre ripudia i fondatori (proprio come con la Costituzione)

Anche ieri, come ogni anno da molti anni a questa parte, la festa della Repubblica è stata da tutti celebrata con parole solenni, con il consueto impasto di ipocrisia e inconsapevolezza.

Da alcuni decenni, infatti, è diventato normale onorare il giorno in cui la Repubblica fu fondata e ripudiarne i fondatori, esaltare la festa e insultare il festeggiato, rendere omaggio all’anniversario del 2 giugno e maledire la nascita della Prima Repubblica, dei suoi protagonisti e delle sue istituzioni, come se non fossero la stessa cosa, proprio come ogni giorno cantiamo le lodi della Costituzione e copriamo d’ingiurie i costituenti, cioè quei politici e quei partiti che materialmente la scrissero.

Da questo punto di vista, il tweet di Giorgia Meloni è solo l’ultima inevitabile conseguenza di una tale decennale opera di rimozione: una volta scomparsi dal quadro tutti i protagonisti di quella scelta e le loro ragioni, può persino capitare di sentir celebrare il 2 giugno con lessico, slogan e obiettivi polemici assai più prossimi al linguaggio degli sconfitti che a quello dei vincitori di quella storica giornata («Di fronte alle ingerenze dell’alta finanza internazionale e a chi non vede l’ora di svendere sovranità e interessi della nostra Nazione, rispondiamo sventolando sempre più in alto il Tricolore»).

Se dalla festa della Repubblica togliamo i festeggiati, se dal racconto togliamo i protagonisti e il senso stesso della trama, se la Repubblica non è più il frutto di una dura lotta, bensì una mela spuntata casualmente dall’albero della storia, allora non si capisce perché ognuno non dovrebbe festeggiarla come meglio crede, persino con uno slogan assurdo come «unica, forte e sovrana» (come nel tweet sopracitato), che è sempre meglio di credere, obbedire, combattere, per carità, ma è comunque assai distante, eticamente ed esteticamente, da democratica, antifascista e fondata sul lavoro.

E non dovrebbe servire un filologo per scoprire quale delle due definizioni sia più conforme all’originale.

Forse ha ragione Sabino Cassese, quando sul Corriere della sera di ieri sostiene che in fondo l’esaurimento delle grandi tradizioni politiche che hanno fatto la storia della Repubblica – popolare, socialista e liberale – sia dovuto al fatto che esse hanno compiuto la propria missione, realizzando costruzioni grandiose, dallo stato sociale allo stato di diritto. E che oggi dunque i partiti, per ritrovare la propria funzione, dovrebbero dimostrarsi in possesso di un’analoga capacità di pensare e costruire il futuro.

E qui saggiamente Cassese si ferma, senza mettersi a fare paragoni tra i politici di allora e quelli di oggi, tra i quali andrebbero reclutati i visionari artefici delle istituzioni future. Ammaestrato da tanta saggezza, eviterò anch’io … leggi tutto

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