di Mario Lavia
Abbiamo scherzato
Sull’Ucraina, l’avvocato del populismo fa marcia indietro, si allinea alla maggioranza e cambia strategia, andando a caccia in consensi con promesse di soldi, sussidi e redditi per tutti
Contrordine compagni, lunga vita al governo Draghi! Giuseppe Conte ha suonato la ritirata strategica sulla questione delle armi all’Ucraina rendendosi conto che nei gruppi parlamentari del M5s prevale la linea di Luigi Di Maio, il ministro degli Esteri, e Federico D’Incà, il ministro per i rapporti col Parlamento che è la persona che sta materialmente lavorando al testo di una risoluzione di maggioranza da presentare nelle aule parlamentari il 21 giugno, quando vi si recherà il premier.
Il legale foggiano naturalmente fa finta di non aver mai minacciato il governo Draghi malgrado le cronache di queste lunghe settimane siano piene di penultimatum: addirittura più di un mese fa, il 6 maggio, Conte annunciava che il M5s avrebbe presentato un documento parlamentare «per fare chiarezza» sul no ad un nuovo invio di armi alla Resistenza ucraina, secondo il bislacco ragionamento secondo il quale «l’Italia ha già fatto tanto» (ci sarebbe stato bene un “signora mia”) nell’evidente tentativo di capeggiare la crescente insofferenza di una parte importante del Paese per il conflitto scatenato da Mosca.
Adesso fa la faccia buona – «non vogliamo creare problemi al governo» – per l’ottima ragione che, come detto, nemmeno tutti i suoi lo stanno seguendo e anche per il fatto che riservatamente il Pd gli ha fatto capire che una rottura sull’Ucraina e sugli impegni internazionali dell’Italia non sarebbe stata esattamente il miglior viatico per un’alleanza che già di suo sta oggettivamente facendo acqua da tutte le parti.
Meglio dunque far buon viso a cattivo gioco e acconciarsi a sottoscrivere una risoluzione di tutta la maggioranza a sostegno del discorso che il 21 Draghi terrà in Parlamento, discorso che naturalmente rifletterà la posizione dell’alleanza euro-atlantica e che ribadendo il totale sostegno a Kiev metterà al centro la necessità di una “escalation diplomatica”, termine coniato dal ministro degli Esteri dal quale l’avvocato del popolo è ormai distante anni luce.
Conte ha poi capito che neppure Matteo Salvini intende fare barricate sulla questione delle armi e adesso si sente come tradito dal suo gemello verde, e ha deciso di cambiare disco suonando una nuova canzone elettoralistica, quella dei “diritti dei lavoratori” (espressione sua).
Travestendosi da Maurizio Landini, girando per la campagna elettorale, l’ex presidente del Consiglio sente il plauso di cittadini che evidentemente lo vedono come l’uomo che può elargire soldi, sussidi, redditi, salari minimi, un confuso calderone demagogico-populista che soprattutto al Sud scalda gli animi illudendo le persone in difficoltà dell’arrivo dell’uomo della Provvidenza.
La direttiva europea sul salario minimo è stata prontamente rivenduta come una vera e propria panacea per risolvere una complicatissima questione salariale.
Un remake di quell’«Abbiamo abolito la povertà» urlato dal giovane Di Maio dal balcone di palazzo Chigi, come ha ironicamente osservato Dario Di Vico sul Foglio che ieri, insieme ad altri contributi di studiosi seri, da Carlo Cottarelli a Luca Ricolfi, ha spiegato in lungo e in largo che la direttiva europea non è affatto quella scorciatoia semplice per alzare i salari come la si vuole gabellare, e senza contare la contrarietà di sindacati e Confindustria … leggi tutto
(Nick Fewings)