Non contiene i sogni,
Draghi, durerà un po’, forse fino al 25 settembre. Perfino negli elettorati dei partiti che ne hanno decretato la fine si sono scavati pericolosi solchi. Lo dimostra la fretta con cui i tre leader, Conte, Berlusconi e Salvini stanno tentando di nascondere i pugnali della congiura, dandone la colpa a tutti, compresa la vittima, tranne che a se stessi.
È perciò comprensibile che gli altri, quelli che la fiducia al governo l’hanno votata fino all’ultimo, pensino ora di impostare una campagna elettorale basata sul «noi contro loro»: noi che stavamo con Draghi contro loro che l’hanno cacciato.
E in parte è anche giusto chiamare i cittadini a scegliere tra due opzioni, due stili di governo, perfino due idee dell’Italia e del suo posto nel mondo, sapendo che quella vista in azione negli ultimi 18 mesi è decisamente migliore delle precedenti (e, temiamo noi, forse anche delle successive).
È bene però che sappiano che, per ottenere questo risultato, non basterà riunirsi intorno a una salvifica «agenda Draghi», diventata in queste ore l’esorcismo di chi è stato sconfitto al Senato e ora medita la rivincita nelle urne. Nessuno alle elezioni vota per un’agenda. Un’agenda non ha un volto, non ha una voce, non va in tv, non sostituisce un leader né un partito con una classe dirigente e centinaia di candidati sul territorio.
E non è neanche un programma. È per l’appunto un’agenda, qualcosa di cui si dovrà certamente dotare il prossimo premier per governare. Ma non un manifesto elettorale, qualcosa che scaldi i cuori e le menti degli elettori. Contiene delle cose da fare, molte delle quali sono rimaste da fare proprio a causa della caduta prematura del governo. Innanzitutto la gestione delle grandi e decisive risorse del Pnrr, che potrebbero anche smettere di arrivare, se il prossimo governo non saprà completare le necessarie riforme.
Ma non contiene i sogni, le speranze, le aspirazioni legittime che animano gli elettori e che i partiti hanno il dovere di rappresentare, disegnando ognuno a modo suo l’Italia futura che intende costruire.
Un programma non può consistere solo nella denuncia del carattere onirico e illusorio delle promesse altrui e della lora irrealizzabilità. Deve anche contenere delle proposte, ambiziose ma realizzabili, e deve spiegare come si possano attuare nella realtà dell’Italia che verrà; la quale, purtroppo, sarà di nuovo sottoposta a condizioni stringenti per ottenere l’aiuto della Bce contro lo spread, e anche a nuove regole europee sul bilancio, che il prossimo premier dovrà essere in grado di contrattare a Bruxelles.
Altre volte abbiamo visto agitarsi delle «agende» (nel nome di Giavazzi, nel nome di Monti) che non si sono tradotte in risultati elettorali. Ricordo il venerdì prima delle elezioni del 2013, il favorito Bersani era nello studio di Porta a porta, davanti a una lavagna che nei giorni precedenti Vespa aveva fatto riempire a tutti gli altri leader con le loro promesse elettorali.
La prudenza, il rigore, ma anche il vuoto di proposte e di idee, indussero l’allora segretario del Pd a lasciarla vuota. Il risultato è noto.
Dal centrodestra, è bene saperlo, verrà invece un fuoco di artificio di promesse. Già ieri l’aspirante presidente del Senato, Silvio Berlusconi, ha lanciato le prime due: mille euro di pensione per tutti e un milione di alberi all’anno. Saranno sommerse dal dileggio, come è già accaduto in passato, saranno materia di sketch televisivi dei comici di sinistra (cioè tutti). Ma dal fronte opposto non abbiamo sentito ancora niente di concreto.
Non basterà dire «agenda Draghi» per battere la demagogia. Anche per altre due ragioni. La prima è che gli elettori votano sul futuro, e l’agenda Draghi è qualcosa che appartiene ormai al passato. Se dopo le elezioni fosse chiamato dalle circostanze di nuovo al governo, lo stesso Draghi cambierebbe agenda, perché avrebbe davanti a sé non più pochi mesi ma alcuni anni.
In secondo luogo l’agenda Draghi non ha virtù taumaturgiche in grado di curare le debolezze di partiti e gruppi dirigenti, né potrebbe sostituire l’assenza di coalizioni strutturate e credibili.
Un nebuloso «rassemblement» che usasse il nome del premier impropriamente avrebbe oltretutto il difetto di recar danno all’indipendenza del servitore dello Stato, che è invece la ragion prima della stima di cui gode ovunque, e che va protetta con cura perché potrebbe presto tornare di nuovo utile al Paese … leggi tutto