«Da Genova siamo usciti con un secolo di carcere e con un ragazzo morto.
Ha vinto una visione poliziesca delle immagini, che in fondo è l’origine stessa della fotografia». Tano d’amico spazia dai graffiti rupestri agli smartphone: «il problema non sono gli strumenti, ma cosa si cerca in una foto. Non ci concentriamo sui fatti, guardiamo cosa suscitano. Bisogna ripartire dal teatro greco per riconnettere foto e movimenti»
Per parlare di immagini, vent’anni dopo il G8 di Genova, abbiamo deciso di guardare anche altrove, nel tempo e nello spazio. Dai primi anni Settanta Tano D’Amico ha accompagnato e raccontato ogni fase dei movimenti del nostro paese, con alcune tra le foto più belle che hanno caratterizzato quella storia. «Può un’immagine amare così tanto da cambiare il destino?» si chiede nel suo penultimo libro Fotografia e destino, pubblicato da Mimesis.
La sua è una riflessione profonda e poetica che interroga e spiazza. Ascoltare Tano, per chi lavora con le immagini, è sempre istruttivo e mai banale. Ma c’è una condizione: bisogna avere tempo. Per questo, nonostante le difficoltà del momento, decidiamo di vederci di persona, seduti al tavolino di un bar. A distanza, con i volti coperti come ci è successo in passato durante tante manifestazioni, ci si guarda dritti negli occhi, per affrontare una discussione per niente facile.
Il G8 di Genova, che abbiamo vissuto in prima persona, è stato un evento ipermediatico. In quelle giornate, e poi dopo, mediattivismo e mediatizzazione dall’alto si sono scontrati, con video, foto, radio, articoli. Cosa resta di quelle immagini e di quel movimento vent’anni dopo?
In primo luogo ne è uscito fuori un secolo di carcere e ne è uscito fuori un ragazzo ucciso. Quindi non possiamo dire che per noi è andata bene. Per quanto riguarda le immagini io partirei dal fondo, cioè dall’ultima arringa della difesa in Cassazione. Troppo tardi l’avvocato si è posto il problema e ha parlato di immagini. Ha usato delle belle parole: «Giudici voi state per condannare delle persone per delle immagini a cui voi avete messo le didascalie. Sono istanti di vita distanti tra loro, che voi avete legato assieme, mettendo delle didascalie».
Aspettavo queste parole da tantissimo tempo. Ma rappresentavano una sconfitta delle immagini come erano pensate dai movimenti e dagli stessi avvocati. Con orrore aveva vinto la visione poliziesca delle immagini: da una parte e dell’altra si voleva inchiodare l’avversario. Questo è il peccato originale delle immagini.
Come nasce il rapporto tra fotografia e movimenti?
Facciamo un briciolo di storia, le fotografie sono nate proprio per schedare le persone. All’incirca nel 1830 con la nascita delle grandi fabbriche, in cui si concentravano grandi masse di persone, portate via dalle campagne con il ricatto della fame e obbligate a lavorare senza sosta. Così sono nati i primi sabotaggi (da “sabot”, zoccolo, che veniva gettato negli ingranaggi, per sopravvivere). Per controllare gli operai nei reparti inventarono le foto, per schedare i sabotatori. La fotografia è un’invenzione poliziesca.
Le foto vennero vissute come un pericolo dai maggiori artisti dell’epoca. Cito uno per tutti: Charles Baudelaire, che teneva conferenze in cui teorizzava che quell’invenzione avrebbe riportato indietro la coscienza dell’umanità. Perché – sosteneva – se noi prendiamo un attimo di una realtà ingiusta, lo fermiamo e lo perpetuiamo, facciamo l’operazione più reazionaria che ci possa essere. Non aveva tutti i torti. Però c’era un buco in questo ragionamento: Baudelaire non aveva tenuto conto che quell’attimo che con una foto si ferma e si prolunga il fotografo lo può scegliere.
Eppure Baudelaire, che era l’uomo più fotografato della sua epoca (si parla di 600 ritratti), viveva nello studio di Nadar e degli altri fotografi dell’epoca, che con i loro limiti, sono stati tra i più grandi di sempre. Avevano partecipato ai moti del 1848 e alla Comune di Parigi.
Noi siamo schiavi, ma abbiamo persone bellissime che quando sorridono illuminano tutto. Anche se sappiamo che diventeranno vecchi, sdentati e si ammaleranno, in quel momento, che si prolunga per sempre, quelle persone si raccontano. In quell’istante si può leggere il passato, il presente e anche il destino.
Questo passaggio è descritto molto bene nel tuo libro Fotografia e destino, dove spieghi che per fare «una bella foto bisogna aspettare, aspettare, aspettare…»
Sì, è fondamentale la selezione del momento e delle linee. Tutto il ciclo di studi che facciamo purtroppo è basato sulla parola statica. Ci insegnano la divisione tra immagine statica e immagine figurativa, ma questa è una cazzata! Se noi esaminiamo tutte le immagini che ci hanno formato sappiamo che sono tutte astratte!
I quadri di Van Gogh, ad esempio, richiamano esperienze, pensieri, affetti e sono fortemente astratti. Linee, angoli, che parlano di paura, amore, speranze. Sono gli angoli delle persone. Vedendo un’immagine si capisce se il fotografo ha studiato, si sente l’eco delle immagini del teatro greco, del Rinascimento, della Comune di Parigi, di molti pittori. I movimenti sopravvivono nella nostra memoria grazie alle immagini.
Esistono dei miei colleghi che mai per tutta la vita hanno mandato in carcere nessuno. Perché non hanno rappresentato il periodo? Non è vero, lo hanno rappresentato benissimo. Io, anche se non voglio parlare di me, in sessant’anni di vita con le immagini non ho mai mandato nessuno in carcere. Né amico né nemico, nessuno … leggi tutto