La consigliera Silvia Cestaro in Aula rivela gli abusi: «So cos’è la violenza, l’ho vissuta» (open.online)

di Felice Florio

La rivelazione personale della politica ha scosso 
l’assemblea di palazzo Ferro Fini, che ha approvato 
la nascita di una struttura presieduta da 
Gino Cecchettin

È passato un anno dalla morte di Giulia Cecchettin. L’11 novembre 2023, la studentessa padovana fu assassinata dall’ex fidanzato, Filippo Turetta. Dal giorno dell’omicidio, la famiglia di Giulia ha fatto in modo che il contrasto alla violenza di genere diventasse un tema centrale nell’agenda politico-culturale del Paese.

Sono nate diverse iniziative su impulso della famiglia Cecchettin e della sua storia. Ad esempio il Consiglio regionale del Veneto, il 19 novembre, ha attivato un Osservatorio sulla violenza contro le donne. A presiederlo ci sarà il padre di Giulia, Gino Cecchettin.

La proposta di legge è stata presentata dal Partito democratico, ma ha trovato il favore anche nei banchi della maggioranza di centrodestra. C’è stato un momento in cui l’Aula è rimasta sospesa in silenzio, attonita di fronte alla testimonianza della consigliera regionale Silvia Cestaro: «So cosa vuol dire la violenza. È difficile dirlo. Questa cosa l’ho vissuta di persona, quando ero ragazza».

«Ti arriva da chi non ti aspetti, da chi ti sta vicino. Ti arriva dalle persone che dovrebbero difenderti»

Una rivelazione profondamente intima che la sindaca di Selva di Cadore, eletta nella lista Zaia a palazzo Ferro Fini, ha deciso di condividere con i colleghi consiglieri: «Ho pensato molto prima di fare questo intervento, perché volevo riportare sul piano pratico la cosa. È difficile raccontarlo. L’ho vissuto di persona quando ero una ragazza, so cosa vuol dire la violenza. Lo so perché ti arriva inaspettata. Ti arriva da chi non ti aspetti, da chi ti sta vicino. Ti arriva dalle persone che dovrebbero difenderti: non in casa, ovviamente, fuori casa. L’ho vissuta, purtroppo, negli anni, con tante amiche e tante persone che hanno subito violenza».

Il suo discorso, arrivato dopo quattro ore di dibattito, è intervallato da diverse pause. Cestaro ha cercato di rappresentare, con la sua storia, le difficoltà che le donne possono incontrare prima di riuscire a reagire a una violenza.

«Può capitare a chiunque»

«Quello che posso dire personalmente è che non c’è una rete di protezione, perché chi ti sta vicino molto spesso non ti ascolta, oppure si tu che non vuoi parlare perché ti senti in colpa. Ti senti impura. Immagino che anche Giulia, quando ha parlato coi suoi, con suo padre, con la sua famiglia, coi suoi amici, abbia provato a chiedere aiuto. Ma molto spesso si banalizza. Quante volte ci si sente dire: “Sai, i ragazzi sono esagerati, sarà innamorato, per questo ti tiene stretta a sé”.

Non è così. La realtà è che queste persone sono di un egoismo estremo, ritengono che tu sia a loro disposizione, che tu possa essere un loro oggetto», ha concluso Cestaro. «Non dipende dalla famiglia. Vi posso assicurare che può capitare a chiunque. Molto spesso sono persone che hanno dei genitori meravigliosi, ai quali non hai neanche il coraggio di dire ciò che hanno fatto i figli, perché sai che rovinerai loro la vita». Mentre «può capitare che persone che vengono da famiglie terribili siano quelle che invece ti accolgono, ti ascoltano, ti danno supporto».

Il governo non presenta il report sull’applicazione della legge 194: è la prima volta in 46 anni (editorialedomani.it)

di Federica Pennelli

Diritti
Mancano i dati del 2022. Sportiello (M5s) e l’attivista Di Martino si chiedono se, dietro questo ritardo, non ci sia una volontà politica «rispetto a una linea di continuità sulle politiche di deterrenza che questo governo sta portando avanti rispetto al diritto all’aborto».
Le associazioni continuano a chiedere dati aperti in relazione alle strutture pubbliche
Se i dati pubblici sono un bene comune e una risorsa per la cittadinanza, in Italia abbiamo un serio problema con la loro messa a disposizione da parte del governo, tramite il ministero della Salute. Nel dettaglio, da nove mesi si attende la pubblicazione di un importante report, quello che ogni anno fotografa l’applicazione della legge 194, che permette l’interruzione volontaria di gravidanza, nel nostro paese.

Nonostante la deputata del M5s Gilda Sportiello avesse presentato un’interrogazione parlamentare il 1° ottobre, scritta insieme a Federica Di Martino del progetto “Ivg, ho abortito e sto benissimo”, non aveva avuto alcuna risposta da parte del ministero della Salute.Solo l’8 novembre, tornando a presentarne una seconda, è riuscita ad avere un’amara risposta: i dati non ci sono, siamo fermi a quelli del 2021. Mancano dunque all’appello i dati del 2022, per la prima volta in 46 anni dall’istituzione della legge 194.

Le risposte mancate

Il sottosegretario alla Salute, Marcello Gemmato, ha risposto a Sportiello che «sussistono oggettive difficoltà tecniche a rispettare la scadenza, poiché la raccolta, il controllo e l’elaborazione dei dati analitici sull’interruzione volontaria di gravidanza di tutte le regioni e le province autonome determina un procedimento comprensibilmente lungo e delicato». E ha aggiunto che «la trasmissione dei dati relativi al 2023, da parte delle regioni e delle province autonome all’Istituto superiore di sanità e all’Istat, è infatti ancora in corso».
Per Di Martino, quello a cui stiamo assistendo «ha dell’incredibile ed è vergognoso. Un ritardo simile non si era mai registrato.
Si è parlato di produzione del report dei dati che dovevano essere raccolti afferenti all’anno 2023, ma quelli che stiamo aspettando sono quelli del 2022, nonostante siano già presenti dei dati Istat che non vengono, però, aggregati insieme a quelli che spettano, in termini di raccolta, al ministero della Salute e alle regioni».

Sportiello e Di Martino si domandano se, dietro le ragioni di questo ritardo, non ci sia invece una volontà politica «rispetto a una linea di continuità sulle politiche di deterrenza che questo governo sta portando avanti rispetto al diritto all’aborto».

«Sono talmente insoddisfatta che, ogni volta che ascolto qualche risposta alle interpellanze che pongo al governo, mi chiedo: perché l’ho fatto, se poi mi devo sorbire una risposta che dimostra che il governo non ha la minima idea di quello che sta facendo o di quello che sta succedendo? – si chiede Sportiello –. Non venite a dire che volete applicare la legge 194, perché non è così.
Se così fosse, dovreste battervi in prima persona per assicurarvi che l’aborto farmacologico sia somministrato in tutte le regioni allo stesso modo e sia garantito, perché lo prevede la legge. Non lo state facendo ma anzi, nelle regioni che amministrate, addirittura lo negate, andando contro una circolare ministeriale. E non potete dire con tanta, ma veramente tanta ipocrisia, che volete applicare la legge 194».

La mancanza di dati apertiI

problemi legati alla mancanza dei dati, spiega Di Martino, sono molteplici: «Così come la 194 è stata svuotata di senso, anche il report sulla 194 è stato svuotato di significato reale ed è diventato un mero pro forma con dei dati a cui potersi aggrappare per strumentazioni ideologiche».
Infatti il dato dell’obiezione di coscienza, dai report, sembra ridursi di anno in anno, ma nei fatti non è così: «Qualcuno ci deve spiegare perché i problemi che incontrano le donne ad abortire sono sempre più grandi. È diventato soltanto un manifesto per rendere conto all’Europa del fatto che l’Italia garantisce, da un punto di vista formale, il diritto all’aborto, mentre sappiamo che questa cosa non avviene», continua Di Martino.

Da un lato, quindi c’è una «sottovalutazione dello strumento del report, che andrebbe rimodulato inserendo altri parametri con dati aperti e divisi per strutture, mentre a oggi continua ad apparire come strumento vuoto, una mera formalità che risulta tuttavia necessaria per continuare ad avere una minima prospettiva sui dati».

Per rispondere alla domanda se la legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza (Ivg) sia applicata, bisogna avere dei dati e nella relazione di attuazione del ministero della Salute ci sono solo i dati nazionali e regionali: cioè dati chiusi, aggregati per regione.
Nel lavoro, che poi si è tradotto in un libro “Mai dati”, delle giornaliste Chiara Lalli e Sonia Montegiove, si sottolinea come servano invece i dati aperti e per ogni struttura ospedaliera: «Solo se i dati sono aperti sono utili e ci offrono informazione e conoscenza. Solo se i dati sono aperti hanno davvero un significato e permettono alle donne di scegliere in quale ospedale andare, sapendo prima qual è la percentuale di obiettori nella struttura scelta».

L’accesso all’aborto in Italia

La dottoressa Silvana Agatone, ginecologa, presidente e membro del comitato scientifico di Laiga, spiega a Domani l’iter dei dati: «Ogni volta che un medico effettua l’interruzione volontaria di gravidanza deve trascrivere il dato, che poi viene mandato all’Istituto nazionale di statistica.
Dall’Istat viene inoltrato all’Istituto superiore di sanità (Iss) che elabora i numeri per poi inoltrarli al ministero della Salute». All’interno della relazione, dovrebbero esserci anche i dati sull’obiezione di coscienza ma, per Laiga, non dovrebbero essere presentati come tali quelli di infermieri e medici anestesisti, perchè «non dovrebbero potersi appellare all’obiezione di coscienza.
La legge parla di “quelle azioni che determinano un’interruzione di gravidanza” per cui assistiamo all’errore madornale per cui viene monitorata l’obiezione di personale altro, che non ha nessun diritto legale di farlo. Un errore che fa sì che negli ospedali basta dirsi obiettore e scappare, anche per motivi di urgenza, perdendo tempo prezioso».

Sono capitati, infatti, casi in cui «si entra nella sala operatoria e tutti scappano dicendo “io sono obiettore” e uno li insegue dicendo loro “guarda che non puoi farlo”, perdendo tempo prezioso per la donna.

Un magistrato, se dovesse indagare sulla cosa, andrebbe a cercare solo il ginecologo, non vedendo che è tutto l’ambiente che determina un ritardo illegale». Sulla questione delle Ivg, la dottoressa afferma che «solo poco più della metà degli ospedali offrono l’Ivg nei primi 90 giorni e la cosa più difficile è che molti meno la offrono dopo per le malformazioni fetali. Nel Lazio le Ivg dopo i 90 giorni si effettuavano solo a Roma ed eravamo solo in sei a eseguirle».
Non basta, inoltre, sapere solo quanti siano i medici che si dichiarano obiettori, ma anche sapere quanti siano i sanitari che poi, effettivamente, eseguano gli aborti: «Nei reparti vengono monitorati coloro che si dicono non obiettori, ma è capitato che coloro che si dichiaravano non obiettori fossero presi, per contratto, a fare solo ecografie.
Poteva sembrare che in quell’ospedale ci fossero non obiettori in più, ma non era proprio così. Inoltre, alcuni si dichiarano non obiettori ma poi non vogliono eseguire le Ivg, quindi il dato andrebbe rivisto» perché il numero dei non obiettori non significa, purtroppo, avere più personale medico che effettua le Ivg.Eleonora Mizzoni, con il progetto di mappatura dell’obiezione di coscienza “Obiezione respinta”, dal 2017 fa inchiesta sullo stato dell’arte di accesso alla contraccezione ordinaria, di emergenza e Ivg, a partire dalle testimonianze delle utenti sulle varie strutture ospedaliere.

Mizzoni dichiara a Domani che hanno sempre rilevato una profonda discrepanza tra il report del ministero sull’applicazione della 194 e la realtà: «Una discrepanza quantitativa, dato che nel report manca il sommerso dell’obiezione di coscienza dei farmacisti, che obiettano illegalmente sulla contraccezione di emergenza, come manca anche un dato sull’obiezione di struttura, ovvero quegli ospedali che fanno il cento per cento di obiezione».

Dal punto di vista qualitativo, «da sempre notiamo come l’enorme stigma e giudizio che c’è intorno alla pratica abortiva, che fa sì che anche negli ospedali in cui le donne e le persone incinte riescono ad accedere all’Ivg si vivano delle pessime esperienze: ascolto del battito fetale senza consenso, commenti moralisti inappropriati, antiabortisti davanti agli ospedali, preti in corsia, mancato supporto medico con testimonianze che ci parlano di medici che si sono rifiutati di fornire antidolorifici».