M5s, il giallo parlamentarie. Conte nasconde i candidati

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Il leader non svela i risultati del voto online: 
parte la caccia agli infiltrati e ai nomi sgraditi 
ai vertici

In principio era martedì sera, anzi mercoledì pomeriggio, adesso forse giovedì o venerdì. Per conoscere i risultati delle parlamentarie del M5s toccherà aspettare.

E anche questa storia grillina si tinge di giallo in men che non si dica. Non bastavano le polemiche sul listino bloccato dei quindici fedelissimi di Giuseppe Conte, ora gli aspiranti parlamentari si tormentano per il mistero dei risultati del voto online del 16 agosto. «L’esito delle votazioni delle proposte di autocandidatura relative ai collegi plurinominali nelle circoscrizioni di Camera e Senato sarà reso noto nei prossimi giorni», si legge sul sito ufficiale del Movimento. «Tra due o tre giorni li saprete», prevedono dall’entourage di Conte.

Intanto fioccano le ipotesi sui motivi del rinvio. I contiani assicurano che «ci vorrà qualche giorno per comporre le liste» e che «saranno pubblicate le liste complete». Con tanto di capilista scelti dal leader tra i quindici del listino. Ma non mancano ipotesi alternative. Alcuni critici pensano che annunciare le liste a ridosso del termine del 21 agosto possa servire a disinnescare le polemiche dei delusi. A Via di Campo Marzio, sede del M5s, sono soprattutto terrorizzati dagli infiltrati. In fase di esame delle autocandidature l’avvocato e i suoi hanno già dato una bella sforbiciata di attivisti sospettati di essere vicini a Luigi Di Maio in Campania e a Dino Giarrusso in Sicilia.

Eppure non basta. I vertici del Movimento stanno procedendo a un controllo ex post. In particolare sono sotto la lente di ingrandimento alcune possibili anomalie. Ad esempio, si ragiona, se sono arrivati più voti per lo stesso candidato dallo stesso computer, questo potrebbe l’indizio della presenza di una cordata. E se il nome in questione è sgradito al gruppo dirigente, il presidente del M5s ha la facoltà di depennare il candidato scorretto.

L’avvocato intende sfruttare al massimo i poteri che gli sono concessi dal regolamento per le candidature, dove è scritto: «Il Presidente, sentito il Garante, valuta la compatibilità della candidatura con i valori e le politiche del M5s, esprimendo parere vincolante e insindacabile sulla candidatura; tale giudizio può intervenire in qualsiasi momento dell’iter», fino al deposito delle liste. «Stavolta vogliamo evitare di eleggere persone per mandarle nel Gruppo Misto», taglia corto un deputato parlando con Il Giornale. Basta litigi, veleni, scissioni.

Un obiettivo ambizioso, dato che i parlamentari uscenti sono già sul piede di guerra. Al Sud la competizione è all’ultimo sangue. E gli scontenti saranno tantissimi. In alcune regioni come la Campania e la Sicilia, i reduci sono più di dieci e tutti scalpitano per bissare il seggio. Alcuni deputati e senatori in ansia per il risultato delle parlamentarie minacciano azioni legali contro la decisione di Conte di blindare quindici fedelissimi.

L’avvocato-nemesi dei pentastellati Lorenzo Borrè ha già fatto capire che gli appigli per un ricorso ci sarebbero. Nel frattempo a Campo Marzio si regolano con il bilancino. Il rischio è che, per effetto della legge elettorale, ci siano solo eletti del centro-Sud. Per i pluricandidati, infatti, il Rosatellum prevede che il seggio scatti nel collegio dove il partito prende meno voti. Se un big del Sud viene candidato anche al Nord, è probabile che sia eletto nel collegio settentrionale, dove il M5s avrà percentuali più basse. Un meccanismo che può togliere agli uscenti piemontesi, lombardi o veneti pure quei pochi seggi a loro disposizione.

Per Conte, invece, la preoccupazione è quella di non riuscire ad arrivare al 10%. Sotto quella soglia potrebbe scattare la resa dei conti interna con Virginia Raggi e Beppe Grillo. Grillo resta in silenzio sulle beghe del M5s e su Twitter pubblica la foto di un taglia-calli di marca Credo per prendere in giro la campagna della Lega.

«Credo leghista: fuori i duroni dall’Italia», scrive il comico. Conte in un’intervista con La Stampa rilancia su salario minimo e riduzione dell’orario di lavoro. Quindi attacca il segretario del Pd: «Letta, Di Maio e Draghi volevano farmi fuori».

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