Se il Pd avesse costruito l’alleanza draghiana (anziché fare di tutto per far vincere Meloni) (linkiesta.it)

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Il pasticcio di Letta

Il segretario ha sprecato l’occasione unica del governo Draghi e finirà con l’aiutare gli amici di Orbán e Bannon a conquistare Palazzo Chigi

In queste ore di panico elettorale in cui Enrico Letta spiega che la partita è ancora aperta, anche se gli avversari rischiano di ottenere il 70 per cento dei seggi a causa di una legge fatta dal suo partito e che il suo partito ha promesso di cambiare perché altrimenti ci sarebbero stati rischi gravi per la democrazia, salvo non aver fatto un beneamato niente, e anzi avendo promosso il duello bipolarista con l’amica di Orbán e dei golpisti trumpiani che ora pare minacciare la democrazia italiana, insomma in queste ore drammatiche c’è da chiedersi a che punto saremmo se il segretario del Pd avesse invece perseguito la strada che lui stesso aveva abbozzato al momento dell’elezione, ricevendo i pubblici elogi di questo giornale.

C’è da chiedersi, insomma, che cosa sarebbe successo se oggi a fronteggiare la destra putiniana, orbaniana e neo, ex, post fascista, più il nulla mischiato a niente di Conte, ci fosse un’area liberal democratica coerente, europea e atlantica, draghiana senza trucchi e senza inganni, senza ammiccamenti demagogici e con la partecipazione delle forze e delle intelligenze migliori del paese (molte delle quali vicine al Pd) messe al servizio dei cittadini, delle istituzioni, dei lavoratori e delle imprese?

La risposta è che probabilmente oggi le elezioni sarebbero davvero contendibili, sul serio e non solo sulle card social del Pd, intanto perché l’aritmetica non è un’opinione e poi perché un’alleanza repubblicana degna di questo nome avrebbe generato entusiasmo politico e passione civile in grado di far crescere il consenso e non di alienarlo come sta succedendo davanti a una sconfitta certa e per certi versi addirittura ricercata.

Enrico Letta avrebbe infatti potuto affrontare le elezioni in vari modi, tutti decisamente migliori di quello che infine ha scelto: poteva continuare l’alleanza strategica con i Cinquestelle, o allearsi con i calendian-renziani, o guidare una sinistra mélenchoniana, o giocare una partita solitaria perché il Pd è il Pd, l’unico partito costituzionale del paese e con una sua tradizionale vocazione maggioritaria, oppure avrebbe potuto guidare un ampio fronte antifascista e antiputiniano che mettesse insieme tutte le forze, nessuna esclusa, che difendono la democrazia liberale dagli eversori e dagli emissari delle potenze straniere nemiche.

Letta non ha scelto nessuna di queste opzioni. Né, cosa se possibile ancora più grave, si è impegnato ad approvare una legge elettorale proporzionale in purezza – come abbiamo provato a spiegare per anni a lui, al suo predecessore Nicola Zingaretti e a tutti i fenomeni che oggi si mostrano preoccupati per le sorti della democrazia in favore di cuoricino su Twitter – per garantire rappresentatività a tutti i partiti ed evitare i colpi di mano del possibile vincitore amico dei nemici dell’Occidente e della democrazia liberale.

Letta ha scelto la peggiore soluzione possibile, quella più tragica, quella più pericolosa e talmente assurda che deve proprio averla escogitata col piglio dello studioso di scienze politiche, per poi addirittura peggiorarla in modo irreversibile a mano a mano che ci siamo avvicinati al voto.

Letta non ha cambiato la legge elettorale, anzi ha ribadito la sua preferenza per il sistema bipolare o di qua o di là, legittimando in ogni modo possibile Giorgia Meloni, con tanto di minuetti in stile Sandra e Raimondo ad Atreju, riconoscendola come I’unica e fiera avversaria dell’altra parte.

Letta nei giorni pari ha fatto il minuetto con Meloni e in quelli dispari l’ha accusata di pericolose tentazioni autoritarie, ridicolizzando entrambe le posizioni.

Niente legge proporzionale per salvare la democrazia e avanti col bipolarismo nonostante uno dei due poli lavori esplicitamente per indebolire le fondamenta della convivenza civile, nazionale e internazionale.

Niente coalizione draghiana, niente corsa solitaria, niente alleanza strategica, niente campo largo, ma – e qui c’è del genio – una battaglia bipolare da combattere schierando un campo stretto, strettissimo, senza i Cinquestelle con cui il Pd aveva comunque governato per tre anni e con cui fa intendere che tornerà ad allearsi dopo la catastrofe elettorale, anche se quelli ovviamente non ci pensano nemmeno, e senza che sia riuscito il gioco delle tre carte dell’alleanza draghiana ma senza colui, Matteo Renzi, che da solo e contro tutti ha aperto la strada per l’arrivo di Draghi, e in più con lo scappellamento a sinistra di una contemporanea alleanza con gli antidraghiani, gli anti Nato e i caricaturali e residui comunisti italiani (i quali nemmeno riescono ad intercettare Mélenchon, figuriamoci eventuali elettori, visto che il leader francese è venuto in Italia a dare una mano al masaniellismo di Luigi De Magistris, mica agli alleati del Pd).

Il pasticcio di Letta è stato scoperchiato da Carlo Calenda, il quale sarà anche impolitico in alcune sue scelte ma in questo caso ha tenuto i nervi saldi e non è cascato nel grottesco saltafosso orchestrato dal professore di SciencePo con la complicità di PiùEuropa (un partito che il 25 settembre non supererà lo sbarramento e sparirà senza lasciare traccia, ma solo l’onta di aver avallato un’operazione surreale in cambio di tre o quattro seggi da dipendenti di sinistra).

Letta ha umiliato i riformisti e i draghiani del Pd, abbracciando i no ai rigassificatori e gli anti Nato, pur essendo lui il leader italiano più filo Nato che ci sia, e si è dotato di una linea politica economica-sociale di stampo grillino, dettata da Orlando e Provenzano che, ovviamente, fa crescere solo i Cinquestelle … leggi tutto

(fauve othon)

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