Tra la città di Napoli e il pensiero filosofico del Novecento sembra esservi una qualche segreta affinità:
pare che fu quando Sraffa gli chiese quale fosse la logica del gesto napoletano «me ne frego», che Wittgenstein comprese che l’analisi logica delle proposizioni era insufficiente a chiarire il modo di funzionamento del linguaggio umano. La limpidezza deduttiva del Tractatus era stata messa in crisi da quella fusione di gesto, senso ed espressione che caratterizza l’uso mediterraneo del linguaggio.
Questa capacità partenopea di «compenetrare» alto e basso doveva segnare un’intera generazione di filosofi: Theodor Adorno, Siegfried Kracauer, Alfred Sohn-Rethel, ma soprattutto Asja Lacis e Walter Benjamin che si incontrarono nella Napoli degli anni ’20 per ritornarne trasformati.
Per questi giovani borghesi, abituati al rigore degli inverni brandeburghesi e al nitore affilato della fredda luce del nord, l’impatto con la realtà partenopea sarebbe stato dirompente. Adorno e Kracauer resteranno affascinati dai polpi venduti vivi al mercato, vedendo balenare in questa compenetrazione immediata di vita selvaggia e di merce l’allegoria più vivida del feticismo marxiano, che descrive la trasfigurazione del lavoro vivo in oggetto di scambio … leggi tutto