di Mario Lavia
Milano, Italia
Mentre la borghesia milanese filo dem si interessa alla Moratti candidata nel Terzo Polo, il partito si allea con gli inesistenti Cinquestelle e ignora l’ultima e coraggiosa occasione riformista offertagli da Pierfrancesco Maran
Lombardia, Italia. Metafora del dilemma che attanaglia il Partito democratico. C’è un destra forte, che da trent’anni governa la Regione: «E noi che facciamo? Ci rinchiudiamo in noi stessi?», si chiede Pierfrancesco Maran, Pd, riformista, validissimo assessore della giunta Sala, recordman di preferenze alle comunali dell’anno scorso, dunque molto stimato e seguito nella sua Milano, appoggiato da molti sindaci come Giorgio Gori.
Maran è uno che vorrebbe provare a giocarsela, almeno provando a far stare il Pd in campo. Scartata la strada anche solo di una verifica della candidatura di Letizia Moratti – ci torneremo – c’è dunque questo riformista milanese che si trova a doversi far largo tra le trappolette e i sussurati veti di dirigenti milanesi e nazionali (i soliti Dario Franceschini, Enrico Letta, Nicola Zingaretti e compagnia) nel quadro di una battaglia interna nella quale Pierfrancesco Majorino, campione della sinistra Pd, apre a un Movimento 5 stelle che in Lombardia conta poco, ma tant’è. «Per superare quest’impasse ci vogliono le primarie – ci dice Maran – e la cosa buffa è che è sempre stata la sinistra a chiederla ma questa volta no».
Perché non far decidere la gente, non si capisce. O meglio, si capisce. È la continuazione del meccanismo delle liste bloccate con altri mezzi: «Si decide tutto nelle stanze segrete dei partiti, e vale per tutti i partiti, intendiamoci. Sono potentati senza consensi. Ma i riformisti per vincere hanno bisogno della partecipazione e molte volte le primarie hanno generato proposte vincenti malgrado i pronostici della vigilia. Io sono in campo per sbloccare una situazione incredibile che ha visto i no di Beppe Sala, di Giuliano Pisapia, nomi talmente forti che, quelli sì, non avrebbero avuto bisogno delle primarie, ma adesso è indispensabile ascoltare le persone anche per fare chiarezza».
C’era Letizia Moratti. «Se lei si ritirasse e si mettesse a disposizione di una nuova coalizione il discorso sarebbe diverso, certo è che noi non possiamo votare una persona che fino a venti giorni fa era nel centrodestra Io so anche che a molti elettori del Terzo Polo la candidatura della Moratti non è piaciuta molto».
Un ticket non è possibile, anche perché il candidato è uno. Eppure l’ex sindaca di Milano riceve ogni giorno gli endorsement più vari, ultimi quelli di un uomo non certo vicino al Terzo Polo come Nando Dalla Chiesa o di un grande giornalista come Ferruccio de Bortoli che parlando con il Foglio ha stigmatizzato lo «sdegnoso giudizio di classe» del gruppo dirigente nazionale e lombardo sulla Moratti, così che alla fine resta «la deriva alla Mélenchon».
Anche per questo Maran è in campo, per evitare questa deriva. Per evitare di espellere il Pd dal campo riformista sospingendolo sulle rive della testimonianza sociale per di più inquinata dalle tossine del contismo. Roma non lo appoggia, però. Quella Roma nazarenica che nel Lazio rompe con Giuseppe Conte dove è forte e lo cerca in Lombardia dove è debole. E non comprende che le primarie eviterebbero una spaccatura potenzialmente drammatica: «Io – dice Maran – sarei felice di votare il vincitore delle primarie». Non certo il candidato dei dirigenti.
In settimana si capirà qualcosa di più, se per sfidare la destra di Attilio Fontana il Pd sceglie il demo-populismo o il riformismo. È il grande antipasto della battaglia congressuale che si gioca in Lombardia, Italia.