di Paolo Mieli
La tragedia dell’Ucraina da un dittatore all’altro
Papa Francesco ha ricordato l’Holodomor, lo sterminio per fame pianificato da Stalin. E il vescovo di Kiev accusa Putin di voler fare adesso qualcosa di simile
Sarebbe ingiusto lasciare che passi inosservato quel che papa Francesco ha detto in merito alle terribili vicende ucraine di novant’anni fa, mercoledì scorso, al termine dell’udienza generale. Il Pontefice ha esplicitamente citato l’Holodomor, da lui definito senza giri di parole «lo sterminio per fame del 1932-33 causato artificialmente da Stalin». Ha poi invitato a pregare per le vittime di quel «genocidio» e ad un tempo «per tanti ucraini, bambini, donne e anziani che oggi soffrono il martirio dell’aggressione».
Nei fatti ha suggerito una esplicita comparazione tra la carestia in Ucraina «causata artificialmente» dai russi all’inizio degli anni Trenta, e quel che i pronipoti di quegli stessi russi stanno provocando ai giorni nostri nel Paese di Zelensky.
Per non lasciare spazio a dubbi, due giorni dopo, papa Francesco ha riproposto il paragone con l’Holodomor in una pubblica «lettera al popolo ucraino», nella quale si è detto «ammirato» del «buon ardore» di quel «popolo audace e forte, un popolo che soffre e prega, piange e lotta, resiste e spera… un popolo nobile». E «martire». Proprio così: «un popolo martire».
L’«Avvenire» ha dato ampio risalto alla missiva del Pontefice. Ma il direttore del quotidiano, Marco Tarquinio, non si è limitato a quello che per l’organo della Conferenza episcopale avrebbe potuto essere considerato un atto dovuto. Ha anche pubblicato un’intervista (di Giacomo Gambassi) al vescovo latino di Kiev, Vitaliy Krivitsky. Il vescovo ha ribadito che quello degli anni Trenta fu «un genocidio pianificato a tavolino».
E ha accusato Putin di voler fare adesso «qualcosa di simile». La strategia del Cremlino di «colpire le infrastrutture energetiche », ha sostenuto Krivitsky, «dice che l’aggressione russa non ha tanto obiettivi militari, quanto la nostra gente: si vuole ucciderla ricorrendo ai missili e al gelo». Oppure «costringerla a fuggire per svuotare il Paese».
Parole assai impegnative, soprattutto se si considera che in parte dell’Europa ancor oggi non è pacifico che la carestia del 1932-33 sia stata «voluta dall’alto» (come ha scritto Anne Applebaum che a quella tragedia ha dedicato uno studio dalla documentazione esaustiva). Milioni di ucraini, forse cinque, morirono di inedia e di stenti perché così aveva deciso il Partito comunista dell’Unione sovietica.
Il tutto per stroncare definitivamente le tentazioni autonomistiche che si erano diffuse anche tra i comunisti ucraini. Secondo la testimonianza dello scrittore Vasilij Grossman, nel corso di questa catastrofe umanitaria si erano verificati persino casi di cannibalismo: «facevano a pezzi i morti e li cuocevano, uccidevano i propri figli e li mangiavano».
Il primo a capire che nelle campagne attorno a Kiev, Kherson, Kharkiv — ma anche dentro le città — era accaduto qualcosa di mostruoso fu Raphael Lemkin, docente di Diritto internazionale dell’Università di Yale, che nel 1944 — riferendosi ad essa — coniò il termine «genocidio». A parlarne pubblicamente fu invece Viktor Kravcenko, un addetto russo alla missione commerciale negli Stati Uniti che alla fine della Seconda guerra mondiale abbandonò il proprio Paese e pubblicò un libro («Ho scelto la libertà») in cui denunciava gli orrori dell’Urss staliniana.
O meglio, ne parlarono cinque testimoni chiamati a deporre nel processo che si svolse a Parigi a seguito di una causa intentata da Kravcenko contro «Les lettres françaises», dopo che il settimanale lo aveva fatto oggetto di una violentissima campagna ad ogni evidenza ispirata dal Partito comunista di Maurice Thorez.
Le prove di quell’agghiacciante strage perpetrata dai russi all’inizio degli anni Trenta, ancorché incomplete, erano già disponibili nel dopoguerra ed erano fondamentali sotto il profilo storiografico perché utili a spiegare (anche se non a giustificare) i comportamenti filonazisti di gran parte della popolazione ucraina nel corso della successiva guerra mondiale. Ma dovettero trascorrere oltre cinquant’anni perché, con un libro pubblicato da Robert Conquest nel 1986 («Raccolto di dolore»), la comunità degli storici occidentali prendesse in seria considerazione l’Holodomor.
Successivamente, uno studioso italiano, Andrea Graziosi, ha coraggiosamente ammesso che quel libro di Conquest costrinse «una professione riluttante ad occuparsi di un problema fondamentale»: quello del popolo ucraino affamato e deliberatamente sterminato dai russi.
Ma se per la comunità degli storici le responsabilità sovietiche in quel gigantesco crimine sono da tempo un dato acquisito, in Russia (eccezion fatta per qualche resipiscenza in età gorbacioviana) non lo sono affatto. E l’Europa politica — per la pressione di forti correnti favorevoli all’appeasement con Putin — ha fatto molta fatica prima di riconoscere quantomeno parzialmente la natura, l’entità e soprattutto le responsabilità di quel delitto di novant’anni fa.
Ha fissato, l’Europa, un giorno del ricordo dell’Holodomor (il 26 novembre). Ma visto che la ricorrenza cadeva quarantotto ore fa, ogni lettore può rendersi conto da sé di quanto sia stata scarsa l’attenzione pubblica e mediatica a quel ricordo. Non si è distratto fortunatamente papa Francesco. E, sorpresa, la Germania, il cui parlamento voterà questa settimana una mozione per riconoscere l’Holodomor come genocidio.
Il fatto che il cancelliere Olaf Scholz (o meglio il suo Parlamento), sulla scia di papa Francesco, abbia deciso di muovere implicitamente a Putin le accuse esplicitate dal vescovo Krivitsky ci suggerisce che forse coloro che hanno compreso la gravità di quello che sta capitando al popolo ucraino, sono più di quanti potessimo immaginare.