di Mario Lavia
Non solo Gori
Che vinca Schlein o meno, in caso di abbraccio strategico definitivo con i post-populisti di Conte, finirebbe il partito pensato e costruito come soggetto dell’innovazione dentro il sistema liberale
Ha destato un po’ di scalpore una frase pronunciata qualche giorno fa da Giorgio Gori: «Se vince Elly Schlein potrei lasciare il Pd». In realtà il ragionamento del sindaco di Bergamo era un po’ più articolato. E se ci si riflette senza nervosismo o pregiudizi, si scopre che è un discorso logico, quasi lapalissiano.
Se cambiassero i fondamentali culturali e politici del Partito democratico, se cioè il partito fondato nel 2007 dovesse assumere caratteristiche da partito estremista, anticapitalista, neutralista, magari manettaro (di solito tutte queste cose si tengono insieme), perché un liberaldemocratico dovrebbe restarvi?
Se in conseguenza di questo nuovo impianto il Partito democratico finisse per scegliere l’abbraccio strategico definitivo con i post-populisti di Giuseppe Conte, che cosa ci starebbe a fare chi ritiene tuttora valida la vocazione maggioritaria di un partito nazionale, democratico e riformista?
Il problema non è nemmeno Schlein segretaria. Non è detto che una leadership della giovane italo-svizzera-americana porterebbe automaticamente un’involuzione come quella descritta. Per esempio, Elly non è affatto una giustizialista. Ma già sul suo atlantismo occorre capire meglio come la pensa – il riferimento è chiaramente al sostegno militare dell’Occidente all’Ucraina – così come c’è bisogno di chiarire se abbia in mente una ripresa in grande stile dell’alleanza strategica con il partito personale dell’avvocato del populismo. Se ritenga il mercato un nemico o non un campo da utilizzare per migliorare la società.
Dunque sta a Schlein spiegare tutte queste cose – e non c’è da dubitare che lo farà – prima di trarre conclusioni. Ma è ovvio che chiunque è autorizzato a guardare a cosa nel Partito democratico potrà succedere, tanto più un esponente autorevole come Gori e dal suo punto di vista, che non è solo il suo, ed è legittimo chiedersi se il partito di Letta stia prendendo una virata tale da stravolgere l’impianto fondamentale del partito fondato da Walter Veltroni (lo abbiamo già scritto e lo ripetiamo: perché non parla?), una conversione “antagonista” che infatti sta spingendo i big della sinistra dem ad accodarsi dietro l’icona di Schlein che pure non amano.
La candidata in altre parole dovrebbe dire se si ritrova nell’impostazione di Nadia Urbinati o di Emanuele Felice o anche di Andrea Orlando, Goffredo Bettini o Roberto Speranza (già tuonante contro «il liberismo che si è insinuato nel Pd da espungere» senza peraltro aver ancora ricevuto il mandato da parte di Articolo Uno di entrare formalmente nel Partito democratico, una delle tante bizzarrie di questa fase).
Se il congresso cambierà il volto del Partito democratico così come si è mantenuto, bene o male, in questi quindici anni trasformandosi in un soggetto non antiliberale ma anticapitalista (perché questo è il sottinteso della crociata contro l’«ordoliberismo») è chiaro che molti, non solo Gori, se ne andranno a fare il Partito democratico da qualche altra parte.
Se le cose stanno così, toccherà giocoforza a Stefano Bonaccini “difendere” il Partito democratico pensato e costruito come soggetto dell’innovazione dentro il sistema democratico-liberale: è il senso della posizione di Gori, Marco Bentivogli, Stefano Ceccanti, Giorgio Tonini e degli altri che hanno redatto il documento laburista che verrà presentato stamattina a Roma, un primo embrione di resistenza contro la “vocazione minoritaria”.