di Goffredo Buccini
Gli ucraini hanno creato una parola intraducibile, «poluda», che richiama molto da vicino il senso del termine usato vent’anni fa da Giovanni Sartori
Gli ucraini hanno nella cultura popolare una parola intraducibile, che però descrive bene l’approccio di vasta parte dell’opinione pubblica occidentale alla guerra d’aggressione russa: poluda. In certe loro favole nere, il diavolo si diletta a offuscare con questa sorta di cataratta gli occhi di chi vuole ingannare, spiega Oksana Zabuzko nel libro «Il viaggio più lungo», compendio della nostra cecità di fronte all’imperialismo putiniano.
Le parole talvolta si rincorrono nel tempo e nello spazio, così svelandocisi appieno. Mosca prepara un inverno di fame e gelo per piegare milioni di ucraini. E ieri il presidente Zelensky ha chiesto ancora aiuto all’Occidente paventando altri attacchi missilistici alle infrastrutture volti a «provocare nuovi blackout». In un contesto così estremo, la poluda richiama molto da vicino il senso del ciecopacifismo di cui parlava vent’anni or sono Giovanni Sartori.
Si tratta di quella tenebra che ottunde chi, «tutto cuore e niente cervello», rifiuta qualsiasi guerra, anche quella difensiva, anche quella che servirebbe a fermare un assassino quando questi compie i suoi misfatti proprio sotto il nostro sguardo. I pacifisti degli anni Trenta «hanno aiutato Hitler a imporsi», annotava il grande politologo.
Oggi la voglia di pace è grande, naturalmente, e cresce ormai assieme alla nausea per questa guerra «blasfema», come ripete senza sosta Papa Francesco. Tale intenso e sano desiderio può tuttavia generare equivoci, accecarci. E forse è alla base d’un curioso abbaglio: a Parigi s’è tenuta ieri una conferenza internazionale, con Macron quale principale promotore.
Obiettivo: consentire agli ucraini di «resistere durante l’inverno» e, accanto, porre le prime basi della ricostruzione che verrà. Ammontano a un miliardo i fondi promessi per i prossimi quattro mesi. L’iniziativa ha raccolto una settantina di partecipanti d’alto rango (per noi, il ministro Tajani) nel supporto a Kiev in settori vitali come energia, trasporti e alimentazione. Confondendo desideri e realtà, su alcuni media era stata tramutata in una «conferenza di pace»: che certo sarebbe ottima cosa, se ci fosse qualcuno a Mosca disposto a parlarne sul serio. E qui torna in scena la poluda, perché ci vuole davvero una benda davanti agli occhi per non vedere.
A inizio dicembre, infatti, il ministro degli Esteri russo, Lavrov, nella conferenza stampa annuale coi media, ha rimesso mano al più trito repertorio con cui il regime aveva giustificato l’invasione del 24 febbraio, dall’invettiva contro «lo sconsiderato allargamento della Nato» alla «minaccia esistenziale» che noi occidentali avremmo lanciato contro la Russia tramite Zelensky, fino a uno strabiliante attacco al Papa, accusato di «dichiarazioni non cristiane», con tanti saluti ai tentativi di mediazione del Vaticano.
Inoltre, poiché i russi dedicano speciali attenzioni all’Italia sperando in una nostra defezione, assai improbabile vista la postura di Giorgia Meloni, l’ambasciatore Razov ha lanciato la fake news di un blindato italiano distrutto in terra ucraina (ammonendoci, «tutti i contribuenti italiani sono felici di questa destinazione dei loro soldi?») proprio mentre stavamo discutendo sulla proroga dell’invio di armi a Kiev.
Insomma, c’è da pregare per un cessate il fuoco, è ovvio: Gideon Rachman sul Financial Times immagina un armistizio «coreano», che a un certo punto congeli la situazione senza un trattato formale. Ma lui stesso ammette che Putin delira ancora di vittoria e si paragona a Pietro il Grande, un raffronto forse non casuale sui tempi e i propositi, visto che lo zar vinse la Grande guerra del Nord dopo 21 anni di combattimenti.
Di buono c’è che Putin fa ciò che dice, basterebbe ascoltarlo e regolarsi. Rovesciando la lettura di Lavrov, Kaja Kallas ricorda su Foreign Affairs che a dicembre dell’anno scorso la Russia aveva minacciato la Nato con il suo ultimatum: stop alla politica delle porte aperte e stop al dispiegamento di forze in Paesi entrati nell’Alleanza dopo il 1997 o sarebbe stata la guerra. Due mesi dopo, guerra è stata.
Ma fino al giorno prima i nostri ciecopacifisti sostenevano che il suo spauracchio era un’invenzione della Cia e che 190 mila soldati russi al confine ucraino fossero lì a esercitarsi. Insomma, l’idea del dialogo per ora è velata di irenismo. È un «dialogo col sordo», ha scritto Paola Peduzzi sul Foglio.
L’ottundimento dei sensi è tema ricorrente. Qui, il sordo è Putin che finge di non capire, spiegandoci che «un accordo sarà inevitabile» prima o poi, a patto che vengano riconosciuti «i nuovi territori della Federazione Russa», cioè quel quinto di Ucraina che lui occupa illegalmente e stupra ogni giorno.
Le parole, in una guerra che passa molto attraverso la conquista di cuori e menti, sono assai importanti ma assumono diversa intensità a seconda della distanza dai missili russi. Sicché gli ucraini hanno riscoperto sulla loro pelle il significato di Holodomor: la carestia con cui Stalin li decimò il secolo scorso e che Putin ripropone adesso, coi suoi bombardamenti sugli impianti civili che mirano a ridurre l’Ucraina a una landa ghiacciata (un incubo cui si oppone appunto la conferenza di Parigi).
Noi, più fortunati, possiamo dilettarci, per ora senza conseguenze così estreme, con la parola «guerrafondaio», rispolverata contro il governo Meloni dal leader d’opposizione Conte dopo avere votato lui stesso con la maggioranza precedente i decreti sull’invio di armi. Il termine ha una storia illuminante.
Usato dal Pci addirittura contro De Gasperi per rimproverargli la sudditanza verso gli (allora) odiatissimi americani, non era disdegnato neppure da Hitler che voleva presentare la sua guerra come atto puramente difensivo: nel 1939 il Fuhrer lanciò una campagna mediatica in cui, accingendosi a invaderne il territorio, dava del «guerrafondaio» al governo di Varsavia, accusato di «atrocità» contro la gente di etnia tedesca che viveva in Polonia … leggi tutto