di John Foot
Negli archivi era identificato come Francesco Misiano, “il disertore”.
Era invece Giuseppe Lemmi, comunista, sequestrato e umiliato dai fascisti, e dimenticato dallo stato italiano
La foto ritrae un uomo in giacca e cravatta. I capelli sembrano essere stati rasati (malamente). È in piedi, serio, dignitoso, tra una massa di altri uomini – molti sono armati o con il manganello, molti sembrano in divisa. A differenza dell’uomo al centro, questi uomini ridono felici, forse esultano. Ma chi è l’uomo al centro, e cosa gli sta succedendo? E perché ha un cartello appeso al collo?
Negli archivi, fino a poco tempo fa, era identificato come Francesco Misiano, “il disertore”, il simbolo dei sentimenti pacifisti nell’Italia del primo dopoguerra, un’autentica bestia nera per i fascisti. L’anno indicato era il 1921, quando Misiano, che era stato eletto in parlamento con il Partito socialista e poi comunista, fu scacciato dalla camera a mano armata da un manipolo di fascisti violenti.
Ma l’uomo nella foto – in una serie di scatti realizzati dal grande fotografo Alfredo Porry Pastorel – non è Francesco Misiano, e la data non è il 1921.
L’uomo nella foto si chiamava Giuseppe Lemmi, e le foto furono scattate durante la marcia su Roma, quando migliaia di camicie nere calarono sulla capitale, incendiarono redazioni di giornali, attaccarono singoli individui e case private, assassinarono cittadini innocenti. Chi era Giuseppe Lemmi? Un lavoratore delle poste e un comunista, 38 anni nel 1922, dirigente del partito a Roma.
Faceva anche parte degli Arditi del popolo, un gruppo armato che in tutta Italia organizzava la resistenza al fascismo. I leader degli Arditi del popolo furono particolarmente presi di mira durante la marcia su Roma. Un altro importante esponente degli Arditi, Argos Secondari, fu colpito alla testa con tanta violenza che non si riprese mai completamente e finì i suoi giorni in un ospedale psichiatrico.
Il 1 novembre 1922, quando il re aveva già nominato Mussolini presidente del consiglio, un gruppo armato di camicie nere sequestrò Giuseppe Lemmi, che era disarmato, e lo portò nella sede centrale del Partito fascista, dove gli rasarono barba e capelli.
Poi lo costrinsero a bere un litro e mezzo di olio di ricino e gli appesero al collo una serie di cartelli. Uno diceva “sono un disertore”, un altro “sono il segretario del porco Bombacci” (Nicola Bombacci, un’altra bestia nera dei fascisti). Gli dipinsero anche la testa di rosso, bianco e blu e lo obbligarono a gridare “viva il fascio”. Doveva essere terrorizzato – completamente solo tra centinaia di fascisti, messo alla berlina in tutta la città.
Non sappiamo esattamente cos’altro accadde a Lemmi quel giorno. Secondo i resoconti dei giornali, il gerarca fascista Emilio De Bono, uno dei leader della marcia, ordinò che fosse rilasciato. Lemmi fu poi arrestato. Nessun fascista fu fermato dalla polizia. Tutto questo era in linea con ciò che stava succedendo in Italia dal 1920, quando polizia ed esercito si erano fatti da parte per assistere al dispiegarsi della violenza fascista, ed era un segnale di quello che sarebbe avvenuto in seguito.
Senza scampo
Cosa ne fu di Lemmi dopo questa odissea? Molto semplicemente sparì dalle pagine della storia … leggi tutto
(Il dirigente della sezione romana del Partito comunista d’Italia, Giuseppe Lemmi, diffamato e messo alla berlina da squadristi fascisti, Roma, 1 novembre 1922. (Adolfo Porry Pastorel, Istituto Luce/Contrasto))