di Mario Lavia
Orlando, Bettini e Bersani si sentono imprigionati nella tenaglia tra il nuovismo movimentista di Schlein e la ripresa della vocazione riformista di Bonaccini.
Vorrebbero continuare a dare la colpa a Renzi per i loro errori, dimenticando che sono loro a guidare da anni il Nazareno
Sempre amletico, Gianni Cuperlo non ha sciolto la riserva, anche se in serata sembrava meno probabile, che scenda in campo come quarto candidato al congresso del Partito democratico, dopo Stefano Bonaccini, Elly Schlein e Paola De Micheli.
Da giorni il tam tam è molto insistito e anche su Linkiesta avevamo cercato di spiegare che la sinistra dem, cioè il cuore della Ditta che fu di Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema, soffre la candidatura più di sinistra sinora emersa, quella di Schlein, non essendo questa in sintonia con i dettami classici del comunismo italiano di cui la Ditta è l’ultimo epigono, bensì rappresenta, Elly, qualcosa di diverso, estraneo, e soprattutto concorrenziale rispetto al potere interno che scaturirà dal congresso.
Non è una volgarità, ma un fatto politico chiedersi quanti posti avrebbe la sinistra dem se non presentasse un suo candidato. Per tutti questi fattori i tardodalemiani si sentono imprigionati nella tenaglia tra il nuovismo movimentista di Schlein e la ripresa di una vocazione riformista e di governo che dovrebbe rappresentare il senso della scesa in campo di Bonaccini.
Quindi Cuperlo, con dietro i vecchi Massimo & Pier Luigi, e poi i vari Goffredo Bettini, Andrea Orlando e tutti quelli che ancora non si sono schierati, avrebbero motivi per gareggiare in prima persona senza delegare alla neoiscritta Schlein la rappresentanza delle loro istanze più radicali fino, come si dice adesso, ad «espungere il liberismo» dal Pd.
Sarebbe una terza posizione che a occhio potrebbe nuocere più a Elly che al Governatore dell’Emilia-Romagna verso il quale peraltro un po’ tutte le correnti tradizionali stanno marciando (forse persino Dario Franceschini in persona, chissà se anche perché alla moglie, Michela Di Biase, è stato rifiutato da Schlein il ruolo di guida della campagna).
«La sinistra in questi anni è stata opposizione nel partito, e ha delle cose importanti da dire, perché ha avuto ragione su tante scelte cruciali», ha detto ieri Cuperlo. Ma non è proprio così. La sinistra dem, tranne che negli anni di Matteo Renzi che fu messo al governo, dopo Enrico Letta, proprio da lei, è stata sempre in maggioranza: dal 2009 al 2014 sotto Bersani ed Epifani e dal 2018 a oggi, prima con Maurizio Martina e Nicola Zingaretti e poi con Letta.
Una delle caratteristiche della sinistra Pd è proprio quella di lamentarsi della situazione come se essa venisse da Marte e non fosse invece nei posti di comando al secondo piano del Nazareno, dove in vario modo e in tempi diversi ha diretto tutti i settori-chiave, dall’organizzazione alla propaganda, ha avuto i suoi ministri e sottosegretari (memorabile il caso di Andrea Orlando, ministro in tre governi diversi, con Letta, Renzi e Draghi), ha tuttora un vicesegretario, Peppe Provenzano, ha avuto sindaci, deputati, senatori e deputati europei.
Non è dunque che possa chiamarsi fuori, non è che non abbia una responsabilità pro-quota nella disfatta elettorale e nello stato di malattia avanzata del partito. Quando i campioni della corrente hanno perso le primarie – Cuperlo contro Renzi, Orlando sempre contro Renzi – poi ha presto preso le sue rivincite appoggiando Zingaretti contro l’allora renziana Ascani e poi Enrico Letta dopo che Nicola fuggì provando schifo per le correnti (tra cui quelle che l’avevano fatto vincere).
La scelta dell’alleanza strategica con Giuseppe Conte punto di riferimento fortissimo dei progressisti è farina del sacco di Zingaretti e Bettini, contigui anche se non organici alla corrente della sinistra, una scelta oggi inopinatamente rinverdita in Lombardia da Pierfrancesco Majorino, un altro esponente della sinistra dem.
Lo slogan “Conte o morte” propinato da Zingaretti rifletteva esattamente questa linea, sconfessata poi dai fatti. Ora fanno credere che la disfatta del Pd dipenda dal Jobs Act del governo Renzi (di cui facevano parte) oppure per altro verso dall’abolizione del finanziamento pubblico (varato dal governo Letta di cui facevano parte), mentre la madre di tutti i mali del nostro tempo è la precarietà, dice la corrente dell’ex ministro del lavoro Orlando e infine il problema è che non c’è più il partito organizzato, dice la corrente che da Davide Zoggia all’attuale Stefano Vaccari ha quasi sempre tenuto in mano le redini dell’organizzazione.
La colpa è sempre colpa di qualcun altro, come frignano i bambini quando sono colti in fallo dalla signora maestra, o come quando John Belushi sciorina dal suo indimenticabile elenco di scuse quello dell’invasione delle cavallette.
La verità è che «siete tutti coinvolti». Solo dopo un gran lavacro autocritico, che non c’è stato, si può provare a ripartire. Altrimenti è solo accanimento terapeutico o manovra di palazzo.