di ENRICO DI PASQUALE E CHIARA TRONCHIN
Il prossimo decreto flussi rischia di avere troppi obiettivi:
garantire manodopera alle imprese, mettere pressione sui paesi di origine e aumentare i controlli sul reddito di cittadinanza. Potrebbe così finire per causare intoppi e ritardi.
Il “premio” ai paesi collaborativi
Entro fine anno il governo dovrà approvare il decreto flussi, stabilendo la quota di immigrati che possono fare ingresso in Italia per motivi di lavoro. Sarà il primo varato dal governo Meloni che, tramite il ministro dell’Interno, ha già annunciato alcune novità.
Il precedente decreto, approvato a fine 2021, aveva portato il numero complessivo di ingressi a 69.700 unità per l’anno in corso, 42 mila delle quali riservate al lavoro stagionale. Si trattava di un significativo aumento rispetto alle 30 mila unità annue previste nei sette anni precedenti, in linea con le esigenze delle imprese in diversi settori.
La prima novità del prossimo decreto riguarda la volontà di “premiare” i paesi che collaborano attivamente con l’Italia nella prevenzione degli arrivi irregolari e nella gestione dei rimpatri.
L’Italia fa sempre molta fatica a rimpatriare i richiedenti asilo a cui viene negata la richiesta. Dal 2012 al 2020 il nostro paese ha rilasciato ogni anno circa 30 mila ordini di espulsione (cosiddetto “foglio di via”), riuscendo a rimpatriare effettivamente complessivamente solo 50 mila persone, con una media di 5 mila all’anno. Considerando le 100 mila persone accolte nei centri di accoglienza, questo diventa un problema.
L’idea di “premiare” i paesi che collaborano con i rimpatri non è sbagliata, almeno in teoria.
Già oggi, peraltro, una parte consistente delle quote è riservata ai paesi che hanno sottoscritto o stanno per sottoscrivere accordi di cooperazione in materia migratoria (nel 2022 erano trentadue, per una quota di 17 mila lavoratori, circa un quarto del totale).
Purtroppo, però, non è scontato che la promessa di quote d’ingresso sia sufficiente per ottenere maggiore collaborazione da quegli stati. Anche perché, per via di un paradosso normativo, chi entra col decreto flussi è in realtà, molto spesso, già presente sul nostro territorio in maniera irregolare (non necessariamente entrato via mare: può essere anche arrivato con visto turistico o aver avuto un permesso temporaneo poi scaduto).
Inoltre, c’è il rischio che il meccanismo, slegato dalle logiche occupazionali, finisca per premiare non chi è più “adatto” all’inserimento nel mercato del lavoro (secondo parametri quali la conoscenza linguistica, le competenze, la presenza di reti familiari o amicali in Italia), ma a chi, semplicemente, proviene da paesi più “collaborativi”.
Il legame con il reddito di cittadinanza
La seconda novità collega invece il decreto flussi al reddito di cittadinanza. Secondo le anticipazioni del ministro Piantedosi, “Il numero di lavoratori stranieri sarà al netto di coloro che percepiscono il reddito e possono essere canalizzati verso il mercato del lavoro”. L’idea di dare lavoro agli italiani inoccupati prima di fare entrare nuovi immigrati può sembrare ragionevole, ma ci sono alcune problematiche.
Primo, come illustrato in un recente articolo su lavoce.info, non tutti i beneficiari di Rdc sono “occupabili” e non tutti gli occupabili possono fare tutti i lavori.
Da questo punto di vista sono interessanti i dati del rapporto Anpal sui beneficiari del Rdc, aggiornati a ottobre 2022. Su 920 mila beneficiari, quasi il 20 per cento ha già un lavoro. Il 10 per cento è esonerato o rinviato ai servizi sociali. Si scende così a 660 mila “occupabili”, di cui circa 70 mila sono stranieri (10 per cento).
Tra i 660 mila occupabili, poi, quasi il 30 per cento ha più di 50 anni. Inoltre, quasi 3 su 4 sono considerati “lontani dal mercato del lavoro”, ovvero non hanno mai avuto un lavoro negli ultimi tre anni. Se si considera che la richiesta di manodopera straniera si concentra soprattutto nei lavori manuali e faticosi, non sembra realistico rinunciare all’arrivo di stranieri pensando di sostituirli con i disoccupati italiani. Non a caso, Coldiretti ha chiesto formalmente un decreto flussi di 100 mila migranti.
Vi è poi una questione di tempistica. Il decreto dovrà uscire entro fine anno, non ci sono dunque i tempi per aspettare l’inserimento lavorativo dei beneficiari di Rdc e capire la quota “residuale” da destinare agli immigrati. Si dovrebbe perciò ricorrere a una stima preventiva degli occupabili italiani, con il rischio di stabilire quote del decreto flussi molto basse. Se poi la previsione non fosse rispettata, il sistema produttivo ne risentirebbe.
Già nel 2022 si era verificato un problema legato allo scostamento tra i tempi burocratici e quelli delle imprese, risolto solo con l’intervento del governo nel decreto “semplificazioni” di giugno (Dl 73/2022). Quelle semplificazioni dovrebbero quindi essere mantenute anche in futuro, cercando di snellire le procedure e rendere gli ingressi più vicini ai fabbisogni delle aziende.
Il rischio è invece che, nel tentativo di raggiungere contemporaneamente obiettivi diversi – garantire la manodopera per le imprese, mettere pressione sui paesi di origine dei migranti irregolari e aumentare i controlli sul reddito di cittadinanza – si finisca per complicare ulteriormente la procedura, generando ritardi e intoppi.