di Asmae Dachan
“Quello era un segno, una sorta di presagio di quello che sarebbe successo ad Aleppo e in tutta la Siria di lì a poco.
Era il 23 aprile del 2013 quando, sotto il peso dei bombardamenti governativi su Aleppo, crollava il minareto della moschea degli Omayyadi ad Aleppo, costruito nel lontano 1090. Solo pochi mesi prima l’Unesco aveva lanciato un appello per proteggere l’intera moschea, considerata patrimonio mondiale e uno dei luoghi di culto islamici più belli del mondo.
La distruzione dell’antica torre suscitò molte reazioni sul piano internazionale e spinse un professore italiano dell’Università Politecnica delle Marche, Gabriele Fangi, docente di architetture, a proporre di usare il suo lavoro di fotogrammetria sferica per ricostruire il minareto.
Il professore, venuto a mancare nel 2020, andò effettivamente in Siria, ma la ricostruzione non è mai ripartita, anche per via delle sanzioni imposte al regime di Damasco per la perpetuazione di violenze ai danni di civili. Le 2400 pietre che compongono il minareto sono ancora lì, messe in fila, in attesa di tornare a toccare il cielo. “Tutto il mondo ha visto le immagini del crollo del minareto in tv.
Molti siriani, a causa dei posti di blocco e della divisione della città tra aree sotto il controllo del governo e aree sotto il controllo dei ribelli, non hanno più potuto mettere piede in quella moschea. È come aver appreso la notizia della morte di un caro, senza però potergli dare l’ultimo addio”, racconta Omar, che sul telefonino ha diverse foto del prima e del dopo la distruzione. “Abbiamo pianto anche quando hanno saccheggiato e dato alle fiamme l’antico suq.
Il dolore più grande, non va dimenticato, non ce l’ha dato tanto la distruzione dei siti archeologici, bensì l’uccisione spietata dei civili. I barili bomba non solo hanno distrutto oltre due terzi della città, ma hanno provocato migliaia e migliaia di vittime. A volte ho la sensazione che la gente abbia pianto di più per il minareto Aleppo o il sito archeologico di Palmira che per gli abitanti delle due città”, aggiunge.
“Chi, come me, ha vissuto il momento dell’evacuazione, dopo mesi di assedio e anni di bombardamento, chi è salito sui famigerati autobus verdi sa di essere un sopravvissuto all’inferno, ma siamo stati dimenticati da tutti e persino dipinti come criminali”.
Nel dicembre del 2016, un anno particolarmente freddo e nevoso, gli ultimi ribelli contro il governo di Damasco sono stati costretti ad evacuare la zona est della città di Aleppo, per non farvi più ritorno. Sotto il nome “ribelli”, oltre a uomini armati, c’erano altre tremila persone circa, secondo il Comitato internazionale della Croce Rossa e della Mezza Luna Rossa, interi nuclei familiari composti da bambini, donne, anziani colpevoli di abitare nella zona est di Aleppo che anni prima aveva visto la sconfitta dell’esercito di Assad per mano del Free Syrian Army. L’opposizione definiva Aleppo est “zona liberata”, sebbene il moltiplicarsi di gruppi armati avesse sensibilmente contribuito alla definitiva destabilizzazione della zona.
Sul piano militare, nel 2016 lo scenario era molto cambiato rispetto ai primi anni dell’insurrezione popolare. Oltre al sostegno iraniano, il governo di Assad poteva ora contare sul pieno impegno dell’esercito russo, che aveva preso attivamente parte ai bombardamenti dal cielo, ma anche a operazioni militari via terra. Anche la realtà degli oppositori era molto diversa rispetto ai primi tempi, quando a scontrarsi contro l’esercito regolare erano gli uomini del cosiddetto Free Syrian Army, una formazione militare composta da colonnelli e soldati dell’esercito siriano che avevano deciso di disertare e di unirsi per contrastare l’offensiva bellica interna sulle città insorte.
L’arrivo in Siria di migliaia di foreign fighters, giunti da molti paesi del mondo arabo, ma anche da Europa e dall’Asia centrale, e le sempre maggiori ingerenze della Turchia e dei paesi del Golfo hanno portato al moltiplicarsi delle fazioni armate, che hanno poi avuto percorsi diversi in Siria.
Ad Aleppo l’Isis non è mai arrivata, ma la città ha visto l’offensiva di altre fazioni terroristiche come Hayat Tahrir al Sham e Jabhat an-Nusra, entrambe di ispirazione qaedista. Proprio la natura integralista di questi gruppi ha contribuito a decimare l’opposizione militare più laica e anche la resistenza civile. Chi non è morto sotto il peso di barili-bomba è stato ucciso da queste formazioni oscurantiste.
Si dice che la storia la scrivano i vincitori. Secondo la versione del governo di Damasco, la battaglia finale di Aleppo, così come la guerra in tutta la Siria, sono state una “vittoria di Bashar al Assad sui terroristi”. Il regime ha bollato e continua a bollare tutti i suoi oppositori come terroristi, negando l’esistenza di una insurrezione popolare pacifica e laica e accusando Stati Uniti, Israele e l’Occidente in generale di aver messo in atto un complotto contro la sua persona, contro la Siria e i Siriani.
Negli ambienti lealisti vige la narrativa di Assad come salvatore della patria, mentre la Siria stessa è definita “Suria al-Asad”, ovvero la Siria di Assad. Ogni volta che cambia un capo di Stato o un rappresentante di qualche istituzione internazionale, i fedelissimi del regime ironizzano con meme e prese in giro, dicendo che tutti cadono, ma non Assad.
Fuori dal paese, Assad ha trovato e trova sostegno negli ambienti cosiddetti antimperialisti e non solo, che lo definiscono il baluardo della laicità e che hanno definito quella di Aleppo una “liberazione” della città … leggi tutto