Ambiente
E. Bruce Harrison condizionò negli anni Novanta il dibattito sulla crisi climatica con effetti che continuano fino a oggi.
Per raccontare questa storia c’è bisogno di raccontare alcuni passaggi fondamentali della storia scientifica e industriale del cambiamento climatico e prima di tutto tornare al 1959, quando il fisico Edward Teller fece sapere all’American Petroleum Institute che sarebbe bastato un aumento del 10 per cento nelle emissioni di anidride carbonica per scatenare una reazione a catena che alla fine avrebbe portato allo scioglimento delle calotte polari e alla trasformazione di New York in una nuova Atlantide.
«Credo che questo processo di contaminazione chimica sia più pericoloso di quanto crediamo». Sei anni dopo, lo stesso American Petroleum Institute fece suonare l’allarme una seconda volta: «Non c’è più tempo», disse l’allora capo dell’istituto, commentando un report della Science Advisory Committee dell’amministrazione Johnson che diceva che «gli agenti inquinanti hanno modificato la quantità di anidride carbonica presente nell’aria in tutto il mondo», con effetti che «potrebbero essere pericolosi per gli esseri umani».
Nel 1970, Shell e British Petroleum iniziarono a preoccuparsi e investirono in ricerche sull’Effetto serra, ricerche che avrebbero dovuto ottenere i giusti risultati. Per loro. Nel 1977 si scoprì che degli scienziati impiegati presso Exxon avevano fatto sapere ai dirigenti dell’azienda che il legame tra l’uso dei combustibili fossili e l’aumento della quantità di anidride carbonica nell’aria era dimostrato da «prove schiaccianti».
Nel 1981 tra i dirigenti di Exxon circolò una comunicazione interna in cui si avvertiva della «concreta possibilità» che il piano deciso dall’azienda riguardante le emissioni di Co2 dei successivi 50 anni avrebbe potuto avere «effetti catastrofici». La stessa comunicazione, però, si chiudeva con una nota di ottimismo: questi effetti catastrofici potrebbero interessare, alla fine, «una grossa parte della popolazione terrestre». Non tutta, quindi.
Nel 1988 l’Effetto serra diventò un fatto, grazie anche alla testimonianza dello scienziato della Nasa James Hansen al Senato americano. Durante la sua campagna elettorale, George Bush Sr. disse che aveva intenzione di opporre all’Effetto serra «l’effetto Casa Bianca.
Da presidente, ho intenzione di risolvere il problema». Nello stesso anno, sulle scrivanie dei dirigenti di Shell arrivava un report strictly confidential in cui si diceva «quando il riscaldamento globale diventerà un fenomeno misurabile potrebbe essere troppo tardi per porre rimedio». Nel rapporto, si prevedeva un aumento della temperatura media globale di uno o due gradi centigradi entro i successivi quarant’anni.
La causa: le emissioni di anidride carbonica. Nel 1989 nasceva la Global Climate Coalition, un gruppo di pressione la cui ragion d’essere era minimizzare il pericolo del riscaldamento globale e rallentare – quando non proprio impedire – l’entrata in vigore di leggi che imponessero limiti alle emissioni.
Nel 1990 i dottori Fred Seitz e Fred Singer dichiararono che loro a questa storia dell’Effetto serra e del riscaldamento globale non ci credevano. Esattamente come fino a pochi anni prima non credevano al fatto che il fumo di sigaretta potesse far male alla salute. Sul fumo di sigaretta erano entrambi così sicuri delle loro opinioni che in più occasioni precisarono che non sarebbero cambiate di una virgola anche se le aziende del settore avessero smesso di finanziare le loro ricerche (cosa che però non smisero mai di fare).
Anche sul riscaldamento globale erano entrambi così sicuri delle loro opinioni che Exxon avrebbe potuto risparmiarsi tutti quei bonifici. Che però continuarono ad arrivare. Nel 1991 Shell pubblicò un film, Climate Of Concern, in cui ammetteva che il clima stava cambiando a una velocità che poteva «impedire agli esseri umani di adattarsi». Nel 1992, al Summit di Rio, si firmò il primo accordo internazionale sulla riduzione delle emissioni. Ed è a questo punto che un americano di nome E. Bruce Harrison cominciò a interessarsi della questione climatica.
Questa timeline (parziale, quella completa si trova in uno stupendo pezzo del Guardian) serve a sottolineare un aspetto spesso trascurato della discussione sulla crisi climatica: non è vero che non c’è mai stato accordo sulle cause e le conseguenze del riscaldamento globale. Fino al 1992, come visto, persino le aziende petrolifere riconoscevano il problema in privato e, talvolta, anche in pubblico.
Nel novembre di quello stesso anno, il vice Presidente degli Stati Uniti divenne l’ambientalista Al Gore, segno di come il problema fosse ormai definitivamente entrato nell’agenda politica. A quel punto, la Global Climate Coalition offrì un contratto da un milione di dollari a chiunque fosse riuscito a trovare un modo per invertire di rotta il discorso sull’emergenza climatica. Come scrive Jane McMullen sul sito della Bbc, a spuntarla fu E. Bruce Harrison, un uomo che la storica dei media Melissa Aronczyk ha definito «un maestro in quel che faceva».
Harrison faceva le pubbliche relazioni: nel ’73 aveva fondato un’azienda a cui aveva dato il suo stesso nome e aveva cominciato a lavorare con alcune delle corporation più inquinanti dell’epoca. Spiegava al mondo che i pesticidi erano innocui e le sigarette un piacere. In quel pomeriggio autunnale del 1992 raccontò alle aziende della Global Climate Coalition come avrebbero superato le difficoltà imposte dal riscaldamento globale.
Non c’era bisogno di inventare nulla di nuovo, disse Harrison: bastava fare quello che in passato avevano fatto le industrie del tabacco e delle automobili. “Reframing the issue” era la priorità: spostare il discorso dall’inevitabilità all’incertezza, introdurre nel dibattito esperti minori e ricerche marginali, costruire scenari catastrofici quanto l’apocalisse climatica ma più immediati, fatti di posti di lavoro persi e stili di vita stravolti.
Non sarebbe stato nemmeno un grosso sforzo dal punto di vista economico: per far pubblicare su una testata nazionale un editoriale “scettico” bastavano 1500 dollari. Dei contatti con sedicenti esperti e giornalisti che si sarebbero volentieri votati alla causa dell’”ottimismo climatico” si sarebbero occupati Harrison e il Dream Team che aveva assemblato per l’occasione.
La Global Climate Coalition fu entusiasta della proposta, definita «un pitch come non se ne era mai visto uno». Un anno dopo, Harrison fissò una riunione per mostrare ai suoi clienti i primi risultati della sua campagna di comunicazione: sui giornali, alla radio, in tv, c’erano state oltre 500 occasioni in cui “qualcuno” aveva invitato a non sopravvalutare la gravità della situazione.
L’ottimismo climatico aveva contagiato anche i legislatori: diverse leggi pensate per limitare le emissioni nel 1993 furono ridiscusse o accantonate. «Gli attivisti climatici hanno pubblicamente ammesso che sulla questione del “riscaldamento globale” nell’ultimo anno hanno perso terreno».
I risultati della campagna di comunicazione di Harrison si videro nel 1997, l’anno in cui fu pubblicato il protocollo di Kyoto. Gallup pubblicò un sondaggio secondo il quale il 44 per cento degli americani erano convinti che sulla questione della crisi climatica non ci fossero certezze e che la comunità scientifica fosse divisa su cause, conseguenze, gravità e soluzioni.
Alla fine di quell’anno, Harrison decise di vendere la sua azienda e di ritirarsi a vita privata. Ricordando quegli anni e quegli eventi, l’ex vice Presidente degli Stati Uniti Al Gore ha definito il lavoro di Harrison «l’equivalente morale di un crimine di guerra». Il 16 gennaio del 2021 E. Bruce Harrison è morto.
Sul
Washington Post fu pubblicato il suo necrologio: «Le sue abilità di comunicatore, imprenditore, consulente aziendale e professore alla Georgetown University hanno contribuito a cambiare in meglio moltissime vite».