Il dilemma del sovranista
La premier è consapevole che se realizza ciò che ha promesso il paese va a carte quarantotto, ma sa anche che se non accontenta i suoi elettori non potrà durare. La sua fortuna è avere come avversario uno come Giuseppe Conte
Non bisognava essere Nostradamus per prevedere che cosa sarebbe successo una volta che Giorgia Meloni avesse formato il governo di destra, cronologicamente e ideologicamente il secondo governo di destra-destra dopo il famigerato Conte uno.
Era evidente già in campagna elettorale che, una volta nominata Presidente del Consiglio, Meloni si sarebbe trovata di fronte al “dilemma del sovranista prigioniero al governo”: provare a realizzare tutte le scemenze urlate in piazza e nei talk show in questi anni e quindi far fallire il paese oppure metterle da parte, governare come una persona seria e gestire l’inesorabile fallimento del fresco matrimonio con gli elettori.
Meloni sta ancora provando una strada alternativa fatta da una parte di slogan («la pacchia è finita»), di minuzie (no ai rave, uso del pos, limite contanti) e di messaggi in codice per il proprio elettorato (richiami nostalgici al Msi, reintegro dei medici no vax) e dall’altra di una certa compostezza amministrativa e istituzionale sulle questioni fondamentali come la legge di bilancio, la continuità con Draghi e il rapporto con l’Europa e con la Nato.
C’è chi sostiene che questa strada alternativa porterà Meloni a governare con successo per parecchi anni, perché da capo di una minoranza radicale e impresentabile la trasforma nella leader di uno spazio ben più ampio, centrale e moderato, peraltro abbandonato dagli altri interlocutori politici.
È una lettura raffinata e ottimistica di quello che sta succedendo, ma che non tiene conto di due cose: dell’inadeguatezza evidente della classe dirigente di Fratelli d’Italia, delle tensioni con e tra i partner di maggioranza e della certezza che nell’epoca della politica polarizzata è più facile perdere i propri elettori che conquistarne altri.
Questo lento spostamento di Meloni sul fronte serio dello spettro politico, ammesso che sia l’esecuzione di un piano strategico e non un tardare a rispondere al “dilemma del sovranista prigioniero al governo”, rischia di essere travolto dall’insoddisfazione di chi l’ha condotta a Palazzo Chigi sulla scia di sentimenti antieuropei, di richieste impossibili da realizzare e di intenzioni nostalgiche.
A favore del tentativo di Meloni c’è ovviamente l’immensa fortuna di confrontarsi con un’opposizione schizofrenica, elaborata dopo profondi studi a Science Po, che prima l’ha legittimata incoronandola interlocutrice unica della destra e poi l’ha segnalata al paese come una pericolosa fascista contro cui costruire un fronte democratico evitando però accuratamente di costruirlo, preferendo invece assecondare risentimenti adolescenziali più che politici e salvaguardare la vecchia guardia della cosiddetta “ditta” Pd.
Il grottesco dibattito congressuale del Pd mostra sempre di più che l’opposizione a Meloni è destinata a consegnarsi a Giuseppe Conte, all’ex premier che al governo fu un appassionato sodale di Trump e di Putin – il primo golpista e truffatore acclarato e l’altro assassino e criminale di guerra – il quale si era messo al servizio anche del nemico numero uno del mondo libero, della Cina di Xi Jinping cui aveva offerto la surreale adesione italiana alla nuova via imperialista della seta.
Con Conte come capo dell’opposizione tutto è possibile, compresa l’ipotesi che Meloni governi l’Italia per vent’anni di fila, ma l’esito non sarebbe la conseguenza di una precisa strategia meloniana, semmai della resa definitiva della sinistra progressista al populismo eversivo dei Cinquestelle.
In ogni caso, lo spostamento al centro di Meloni non funzionerà per le ragioni già evidenziate prima: in un contesto economico internazionale così complicato, Giorgia Meloni europeista e pragmatica non è credibile né in Italia né all’estero e, soprattutto, non potrà reggere l’urlo populista del suo elettorato deluso e tradito.
Anche la via d’uscita delle riforme istituzionali non funzionerà e non solo perché non ha mai funzionato, come ha scritto Francesco Cundari.
Renzi e Calenda sono semplicemente più attrezzati del resto dell’opposizione, e nel caso di Renzi anche più consapevoli del rischio che corre il governo sulle riforme istituzionali, e per questo tentano la premier con l’illusione della Grande riforma, più per programmare la sua detronizzazione che per fare davvero le riforme.
Insomma, il progetto di Meloni è già fallito prima di cominciare, ma continuerà a balbettare e a restare in piedi fino alla nascita di un’alternativa seria e competitiva al bipopulismo.
Molto dipenderà nei prossimi mesi dal Congresso Pd, dalla fine politica di Forza Italia e dalle faide interne alla Lega, oltre che dalle potenziali nuove offerte politiche repubblicane e costituzionali a vocazione maggioritaria in grado di intercettare l’ennesimo prossimo scombussolamento del quadro politico.
L’unica nota positiva per il paese è che, a differenza degli altri spericolati populisti italiani, Giorgia Meloni si è formata prima ai margini e poi dentro un sistema politico democratico, ha una cultura pericolosa ma tutto sommato tradizionale, ed è pienamente cosciente delle difficoltà che deve affrontare al governo di un paese.
Per queste ragioni, Meloni è dotata di una certa decenza istituzionale, non sguaina la spudoratezza di un Salvini o di un Cinquestelle, è consapevole di dove si trova e quindi è più propensa ad agire in modo responsabile, come dimostra la vicenda ucraina, almeno fino a quando a Washington ci sarà un presidente americano serio e non un golpista o un altro esponente dell’ala trumpiana dei repubblicani.
Non è tanto, ma di questi tempi non è nemmeno poco.