Mafia. Lettera da Palermo (doppiozero.com)

di Gianfranco Marrone

M’ero recato lì, in quella stessa clinica, 
pochi giorni prima: 

alla camera ardente, per dare l’ultimo saluto a un carissimo amico che un risoluto tumore aveva portato via in pochi mesi. La stessa clinica palermitana dove è stato arrestato Matteo Messina Denaro. Anch’egli là ricoverato per il medesimo male. Chissà se Nicola lo aveva incrociato per i corridoi, questo fantomatico geometra Bonafede – mi sono chiesto per un attimo, scacciando repentinamente il pensiero col solito fastidio.

La casualità non è mai innocente a Palermo, dato che la consapevolezza di poter avere la malavita, il malaffare, la criminalità organizzata a un passo – in strada, in ufficio, nei negozi, per strada, in palestra, al bar, al mare… – è una sensazione che ci portiamo dentro da sempre, dalla nascita direi, in vari modi e per la stessa ragione. Vivo, viviamo nella regione della mafia, nella città dove essa più si annuncia, esiste e, direi, convive con me, con tutti, con ciascuno secondo le circostanze della vita.

A Palermo si ha la perenne sensazione che qualcosa potrebbe succedere – a me, ai miei affetti, ai miei amici, a chiunque – in ogni momento, o forse sta già succedendo senza che me ne accorga. E quando poi accade, quando avverto che è accaduta, uno sbuffo e via: lo sapevo, dico, diciamo, e via con la quotidianità, una quotidianità malata, perversa, eppure comunque normale. La mia normalità.

La mafia è in Sicilia come l’economia per i marxisti ortodossi d’antan: ciò a cui in ultima istanza tutto va ricondotto, la spiegazione più frequente, più semplice, più verosimile d’ogni fenomeno, individuale e collettivo. Dall’apertura improvvisa d’una catena di supermercati al cattivo servizio in un ristorante, dai risultati di una tornata elettorale all’inatteso fallimento di un’azienda, dagli esiti di un appalto pubblico allo sguardo ammiccante di collega che incontro dal meccanico dove vado a riprendere la vespa.

E i meccanismi di questa dinamica ermeneutica sottostante li conosciamo da sempre. Tutto è segnaccio: i sorrisi beffardi che dissimulano un sopruso, il capo chino di chi lo subisce, le pretese senza fondamento, la voglia di scappar via, quella teatralità fasulla dove ogni recita è afflosciata in anticipo, la smania di libertà, l’iterata disillusione. La violenza.

O forse crediamo soltanto di conoscerli, questi dispositivi, cadendo in continui errori interpretativi, sviste, quiproquo. Come i marxisti, difatti, spesso si sbaglia, si sovrainterpreta, si semplifica, si prendono cantonate. Per fortuna chez nous c’è dell’altro. Ma il dubbio che le cose, in fondo in fondo, siano andate proprio così, e cioè che la mafia (che parola patetica, temibile e insieme ridicola!) ci abbia messo lo zampino, o che ne sia stata protagonista, resta sempre. Così come il dubbio opposto, quello per cui, ragazzi, rilassiamoci.

Detto ciò, data questa situazione che chiamerei, per carità di patria, esistenziale, accade con i media quel che spesso accade quando costoro, nel senso dei media, parlano di qualcosa che padroneggiamo da vicino, conoscendola se non bene, senz’altro meglio di loro.

Cogliendo imprecisioni, grossolanerie, equivoci, retoriche d’ogni tipo. E innervosendoci di conseguenza. (Capiamoci, sto provando a parlare di dubbi metodici, non di verità ultime, di certezze assolute. La criminalità organizzata è per definizione, come scriveva Sciascia, qualcosa che non si capisce mai fino in fondo perché, in ultima istanza, si capisce subito. Così come non sto parlando di fake news o che).

Come vive un palermitano il caso Messina Denaro? Ho provato a suggerirlo, prima: male, ovviamente, dove il racconto mediatico (dai giornali ai social), innervandosi in una situazione esistenziale pregressa, la rilancia. Avrò letto troppo Camilleri, ma il sospetto che l’uscita di Giorgia Meloni appena sbarcata in città il giorno dell’arresto – “non c’è stata alcuna contrattazione” – fosse tecnicamente una denegazione è assai forte. Una volta un prete giustizialista, da tempo scomparso, aveva sbottato con una dichiarazione agghiacciante (facendo troppi proseliti): il sospetto è l’anticamera della verità. Forse della post-verità, sarebbe il caso di correggere oggi.

Nei social del resto non si parla d’altro: un capomafia di quella statura, malato di tumore, dopo decenni di latitanza, avrà costruito nel territorio dell’Isola una rete talmente fitta di relazioni, delazioni, compromessi, prepotenze, favori, collusioni, concatenazioni, silenzi e sussurri che, se avesse voluto, avrebbe potuto costruirsi, in uno dei suoi tanti leggendari covi, una clinica tutta per sé. O forse no. Chissà. Che importa?

Le contrattazioni del resto sono l’anima della politica, vecchia e nuova, e anche della mafia, vecchia e nuova. Aspettiamo le decine di libri, di serie televisive (una c’è già, The Bad Guy, e le hanno bruciato il finale), di film che torneranno sul tema, e ci illumineranno a puntino. La vicenda ha le fattezze – tecnicamente – del mito che, come ci insegnano gli antropologi, sta nell’insieme delle sue trasformazioni narrative, nella varietà delle sue versioni.

Un caso, nel doppio senso del termine, potrà forse interessare chi, oltre lo Stretto, non ci avrà fatto caso. È accaduto che, nello stesso giorno dell’arresto del superlatitante ammalato, oltre l’affaire Lollobrigida (nel senso di Gina), dopo settimane di agonia morisse a Palermo una figura localmente eroica, un visionario, un eremita, un folle-saggio: si chiamava Biagio Conte ed era a suo modo anch’egli una figura mitologica. Missionario laico, aveva fatto l’eremita, alcuni pellegrinaggi, e si occupava molto della povera gente, assicurando agli homeless un letto e pasti caldi.

La cosa ha suscitato in città una certa emozione, e se ne è parlato parecchio, un po’ dappertutto. Il giorno del funerale ha coinciso con il ritrovamento del primo covo di Messina Denaro. Un giornale cittadino ha titolato: “Il bene e il male”, accostando due foto emotivamente opposte: una coi barboni in lacrime, l’altra coi carabinieri in perlustrazione.

Ecco, sono sparate come queste che mi rattristano, questo manicheismo da quattro soldi. Queste banalità. Di cui proprio non abbiamo bisogno. Lasciamo il caso al caso, per favore. Altrimenti ci toccherà tapparci in casa.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *