L’autonomia differenziata non è una questione regionale* (lavoce.info)

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Il disegno di legge Calderoli sull’autonomia 
differenziata implica trasformazioni radicali 
degli assetti di potere in Italia. 

Sono temi cruciali. E a definirli non può essere una semplice intesa tra stato e singola regione, travalicando il Parlamento.

Il ruolo del Parlamento

A partire dalla presentazione della bozza di disegno di legge-quadro del ministro Calderoli, è ripresa la discussione pubblica sulle richieste di autonomia regionale differenziata, avanzate in base all’articolo 116.3 della Costituzione dalle regioni Veneto, Lombardia e Emilia-Romagna. Si tratta di una questione di importanza cruciale per il futuro del paese: non di eventuali semplici modifiche agli assetti amministrativi, ma di un complessivo riassetto delle responsabilità su tutte le principali politiche economiche e sociali, a partire da istruzione e sanità.

La discussione si è sinora opportunamente concentrata sul processo decisionale e in particolare sul ruolo che in quel processo deve avere il Parlamento. E questo è un bene, perché tanto nelle ipotesi costruite nel 2019 dal governo Conte I quanto nel disegno di legge Calderoli, il ruolo delle Camere è mortificato, ridotto alla formulazione di pareri consultivi e a un’eventuale approvazione a scatola chiusa. Quasi che si voglia cambiare profondamente l’Italia senza che il potere legislativo abbia tempo e modo di valutarne portata e conseguenze.

È bene ricordare che:

a) a norma della Costituzione le regioni possono chiedere le competenze previste dall’articolo 116, ma sta al Parlamento, considerando l’interesse nazionale, decidere se e quali concedere;

b) allo stesso tempo, nessuna regione ha sinora mai motivato le sue richieste in base alle sue specifiche condizioni, né viene chiesto loro di farlo: ciò significa che tutte le regioni a statuto ordinario possono potenzialmente cercare di ottenere tutte le competenze;

c) le competenze vengono concesse sulla base di una intesa fra stato e singola regione; ciò significa che qualsiasi decisione parlamentare di devoluzione di poteri è sostanzialmente irreversibile: cambiare l’intesa richiederebbe infatti il consenso regionale;

d) la decisione non può essere oggetto di referendum;

e) firmata l’intesa, tutti i fondamentali dettagli sul trasferimento di poteri, legislativi e amministrativi, materia per materia, verrebbero demandati a “commissioni paritetiche” stato-regione, fuori dal controllo parlamentare.

I livelli essenziali delle prestazioni

La discussione si è poi concentrata sui meccanismi di definizione e sulle modalità di raggiungimento dei “livelli essenziali delle prestazioni”, previsti sempre dalla Costituzione, all’art. 117.2.m e mai stabiliti. Il disegno di legge Calderoli, e i paralleli commi 791-801 della legge di bilancio per il 2023, prevedono anch’essi un ruolo quasi solo decorativo del Parlamento, affidando i relativi poteri a commissioni speciali controllate dal ministro. Le regioni non chiedono l’attuazione della legge 42/2009 (rimasta totalmente lettera morta per quanto le riguarda), ma meccanismi finanziari “concordati” simili a quelli in vigore per le regioni a statuto speciale.

È comprensibile la preoccupazione dei rappresentanti dei territori del paese a minor reddito perché questo potrebbe determinare un ampliarsi dei già notevoli scarti esistenti. Anche perché acquisire quante più risorse finanziarie possibili è da sempre un obiettivo chiaramente enunciato (anche se ora messo in sordina) delle amministrazioni regionali di Lombardia e Veneto: si veda ad esempio la deliberazione 155 del 15.11.2017 del Consiglio regionale del Veneto, con la quale si proponeva di trattenere nella regione i nove decimi del gettito fiscale.

I meccanismi di finanziamento delle regioni e ancor più la determinazione dei “livelli essenziali delle prestazioni” rappresentano una decisione politica di grandissima rilevanza, che non può che essere presa dal Parlamento. Significa definire quali sono i reali diritti sociali esigibili da ogni cittadino italiano e soprattutto impegnarsi a destinare cospicue risorse per far sì che questi livelli siano raggiunti in tutto il paese. Altrimenti, come ha limpidamente notato l’Ufficio parlamentare di bilancio, ci si limiterebbe a fotografare le attuali disparità.

Tutto il quadro è poi molto complicato dalle dinamiche politiche; dalla circostanza che i sostenitori di questo processo si ritrovano tanto fra le forze attualmente in maggioranza, quanto nel Partito democratico; dalla tradizione assai diversa di Fratelli d’Italia, la cui leader nel 2014 aveva proposto addirittura di abolire le regioni.

Cosa chiedono Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna

Ma vi è un tema ancora più importante: di quale decentramento parliamo? Le richieste di Veneto, Lombardia e Emilia-Romagna sono sterminate. Attengono praticamente a tutti i temi fondamentali delle politiche pubbliche del nostro paese. Al solo scopo di illustrarne l’estensione, e senza differenziare fra le posizioni delle regioni, d’altronde non così diverse (sul tema si può trovare qui un’eccellente, dettagliata analisi), si può ricordare che richiedono competenze relative a:

a) scuola (norme generali sull’istruzione, regionalizzazione degli insegnanti e dei programmi, concorsi regionali, scuole paritarie, fondi integrativitemi di cui si è occupato su queste colonne Massimo Bordignon);

b) università (sostanziale regionalizzazione del sistema universitario);

c) ricerca (spaziale e aerospaziale, collaborazioni sovranazionali);

d) sanità (definizione del Sistema sanitario regionale, organizzazione offerta ospedaliera e servizi, necessità di personale, ticket, distribuzione ed equivalenza dei farmaci, investimenti infrastrutturali, il tutto con fondi integrativi dedicati);

e) infrastrutture (acquisizione al demanio regionale di strade, autostrade, ferrovie e potere di veto sulla realizzazione di nuove infrastrutture);

f) assetto del territorio (difesa del suolo, potestà in materia edilizia);

g) ambiente (organizzazione delle funzioni, l’intero ciclo dei rifiuti, potere di stabilire tariffe per il conferimento da altre regioni, bonifiche);

h) acqua (acquisizione del demanio idrico, organizzazione del servizio);

i) paesaggio (competenze estese, incluso il trasferimento delle attuali soprintendenze);

l) energia (competenze relative alla produzione, al trasporto e alla distribuzione dell’energia, in particolare relativamente all’autorizzazione e all’esercizio di impianti di produzione, anche in deroga alla legislazione statale; di disciplina dello stoccaggio di gas naturale, di incentivazione delle energie rinnovabili, di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi);

m) beni culturali (soprintendenze, tutela del patrimonio librario, tutela e valorizzazione, dei beni culturali del territorio; regionalizzazione dei musei, rimodulazione dei fondi per lo spettacolo e per cinema e audiovisivo);

n) lavoro (in particolare per l’integrazione fra politiche attive e passive, anche tramite ammortizzatori sociali specifici e contratti regionali di solidarietà espansiva);

o) previdenza complementare (previdenza complementare e integrativa regionale, anche acquisendo il gettito dell’imposta sostitutiva sui rendimenti dei fondi pensione);

p) attività produttive (commercio con l’estero, agricoltura e prodotti biologici, camere di commercio, la disciplina di incentivi, contributi, agevolazioni, sovvenzioni alle imprese, e di crediti di imposta; potestà di istituire nuove zone franche e di ampliare quelle esistenti e di istituire sistemi di fiscalità di vantaggio e di zone economiche speciali in montagna):

q) immigrazione (controllo dei flussi sul territorio);

r) coordinamento della finanza locale.

Questo, per restare solo ai temi principali. È innegabile che si tratti di trasformazioni radicali degli assetti di potere e dell’organizzazione delle politiche pubbliche in Italia; tra l’altro, senza mai motivare perché spostare questi poteri dallo stato alla regioni potrebbe migliorare la situazione per i cittadini italiani, e come le stesse regioni potrebbero far fronte ai nuovi poteri, del tutto simili a quelli di uno stato sovrano.

Ciascun aspetto, corredato da tutte le specifiche informazioni (tanto sulle potestà amministrative quanto su quelle legislative) meriterebbe un amplissimo dibattito pubblico, al quale sarebbe opportuno partecipassero gli esperti dei diversi ambiti. E un attentissimo esame in sede parlamentare prima di qualsiasi decisione, che è, appunto, irreversibile. Il disegno di legge Calderoli, al contrario, prevede esclusivamente un mero voto di ratifica dell’intesa stato-regione. Non si tratta di questioni “regionali”, ma di temi nazionali, di cruciale interesse per tutti i cittadini.

* Questo articolo è pubblicato in contemporanea su Menabò.

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