di PAOLO BALDUZZI E ANDREA BALLABIO
Il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge sull’autonomia differenziata.
Lascia aperte ancora tante questioni cruciali, dal ruolo del Parlamento ai Lep, fino al tema più importante: l’assegnazione delle fonti di finanziamento.
Il processo non è concluso
Nella giornata di giovedì 2 febbraio, il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge (Ddl) recante “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”.
Si dovrebbe trattare dell’ultimo capitolo di una storia travagliata, iniziata ormai più di venti anni fa con la riforma costituzionale del 2001 che ha introdotto la cosiddetta “autonomia differenziata”. Il condizionale è ovviamente d’obbligo. E un’analisi dei contenuti del Ddl non fa che confermare il sospetto che siamo ben lungi da una conclusione: non solo del processo, ma anche del dibattito. Perché i nodi ancora irrisolti sono parecchi.
Definire quindi una giornata storica quella di ieri, come hanno fatto molti esponenti della maggioranza, soprattutto della Lega, appare oggettivamente esagerato. Il Ddl deve approdare in Parlamento e, anche se fosse approvato esattamente come è stato presentato dal governo, non introdurrebbe nell’ordinamento alcun procedimento direttamente attuabile. Vale anche il contrario: appaiono esagerati i commenti di alcuni esponenti dell’opposizione e di alcuni presidenti di regione che arrivano a definire “eversiva” l’operazione in atto.
Le criticità ci sono: e se ne darà conto in questo contributo; tuttavia, al momento sembra che questi toni (così come la scelta di approvare il Ddl proprio in questo periodo) siano più orientati a influenzare la campagna per le elezioni regionali del 12 e 13 febbraio che ad arricchire il dibattito sull’autonomia differenziata.
I contenuti del Ddl
Il testo licenziato dal governo è composto da 10 articoli, uno in più delle bozze circolate qualche mese fa e già commentate su questo sito. L’articolo 1 del Ddl chiarisce al comma 2 che tutto il procedimento di attuazione dell’autonomia differenziata deve essere subordinato alla determinazione dei “livelli essenziali delle prestazioni” (Lep) concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Il comma è una novità rispetto alle bozze precedenti e, secondo le parole rilasciate dal presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, dovrebbe essere sufficiente a garantire l’unità del paese e la parità di trattamento di tutti i cittadini italiani, pur in presenza di attribuzioni differenti alle diverse regioni.
L’articolo 2 stabilisce l’iter per il procedimento di “attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” e vale la pena di essere analizzato attentamente perché definisce i soggetti che parteciperanno al processo decisionale. Innanzitutto, ciascuna regione a statuto ordinario (Rso) può deliberare l’atto di iniziativa, secondo le modalità e le forme stabilite dal proprio Statuto.
Tale atto è inviato al presidente del Consiglio e al ministro competente che, entro trenta giorni, avviano il negoziato con la regione per la definizione di uno schema di intesa preliminare. Lo schema è quindi approvato dal Consiglio dei ministri, sottoscritto dal presidente del Consiglio e dal presidente della giunta regionale interessata e quindi inviato alla Conferenza unificata per un parere non vincolante.
È solo a questo punto che entra in gioco il Parlamento, consultato a sua volta per l’espressione di un primo parere, anche in questo caso non vincolante. Sulla base di questi pareri, il presidente del Consiglio o il ministro competente predispongono lo schema di intesa definitivo. Dopo la eventuale approvazione da parte della regione, lo schema di intesa definitivo viene deliberato dal Consiglio dei ministri, immediatamente sottoscritto da regione e governo e infine allegato a un Ddl che è trasmesso alle Camere per la sua approvazione, che deve avvenire a maggioranza assoluta dei componenti. Dal disegno di legge sparisce quindi l’infelice espressione “mera approvazione” da parte del parlamento; tuttavia, sembra confermato che le Camere non potranno modificare l’intesa allegata al Ddl, ma solo approvarla o meno così come è stata scritta.
L’articolo 3 disciplina l’approvazione dei Lep concernenti i diritti civili e sociali e i relativi costi e fabbisogni standard. Anche in questo caso, la competenza sarà governativa e non parlamentare; più precisamente, Lep, costi e fabbisogni standard saranno determinati da decreti del presidente del Consiglio (Dpcm). Secondo l’articolo 4, il trasferimento delle funzioni, con le relative risorse umane, strumentali e finanziarie, per le materie o gli ambiti di materie riferibili ai Lep, può essere effettuato, secondo le modalità e le procedure di quantificazione individuate dalle singole intese, soltanto dopo la determinazione dei Lep medesimi e dei relativi costi e fabbisogni standard. Sparisce quindi il rischio, possibile con le versioni precedenti dello schema di Ddl, che il procedimento di attuazione dell’autonomia differenziata possa procedere, nelle more della loro determinazione, anche in assenza dei Lep.
L’articolo 5 individua al comma 2 le “compartecipazioni al gettito di uno o più tributi o entrate erariali maturato nel territorio regionale”, il metodo per il finanziamento delle funzioni attribuite. Rispetto a versioni precedenti dello schema di Ddl, scompaiono sia i tributi propri sia la riserva d’aliquota come fonti di finanziamento e la dicitura secondo cui questo metodo deve assicurare il finanziamento “integrale” delle funzioni.
L’articolo 6 stabilisce che le funzioni amministrative trasferite alle Rso possono essere da queste attribuite a province, città metropolitane e comuni.
L’articolo 7 fissa in dieci anni la durata massima dell’accordo. L’intesa può essere modificata o interrotta anticipatamente o rinnovata secondo modalità specifiche stabilite nel Ddl.
Circa le clausole finanziarie (articolo 8), l’attuazione del Ddl non deve comportare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica; tuttavia, qualora la determinazione dei Lep e dei relativi costi e fabbisogni standard determini oneri aggiuntivi a carico della finanza pubblica, la legge dovrà provvedere al relativo finanziamento. Al contempo, viene garantita l’invarianza finanziaria con le regioni che non sono parte dell’intesa.
Concludono il Ddl le “Misure perequative e di promozione dello sviluppo economico, della coesione e della solidarietà sociale” (articolo 9) e le “Disposizioni transitorie e finali” (articolo 10), le quali contengono, al terzo comma, un esplicito riferimento al potere sostitutivo del governo nei confronti delle regioni nei casi elencati dall’articolo 120 della Costituzione.
Cosa manca davvero
La definizione dell’impianto complessivo della riforma rappresenta il primo passo di un percorso che si preannuncia in ogni caso lungo e che contempla diversi passaggi istituzionali, potenzialmente in grado di bloccare o rallentare ancora l’attuazione dell’autonomia differenziata. Lo spirito della riforma dovrebbe essere quello di innescare una competizione virtuosa tra le regioni in grado di fare di più e meglio dello stato centrale. Tuttavia, il pericolo è quello di moltiplicare le burocrazie e i centri decisionali, di ingolfare le istituzioni (e il paese) con regole troppo diverse da regione a regione, nonché di alimentare un’ulteriore sovrapposizione delle competenze tra stato e regioni.
Oltre ai problemi evidenziati nella prima parte di questo contributo, vale la pena ricordare che al momento non esiste nemmeno un criterio oggettivo o tecnico che permetta di stabilire se una regione sia o meno in grado di fare meglio dello stato negli ambiti di competenze che saranno trasferiti. Appare pertanto imprescindibile, e prima di un qualunque ulteriore avanzamento legislativo, introdurre strumenti di misurazione oggettiva dei risultati storici delle varie regioni nelle diverse materie, evitando così i rischi, opposti, di concedere trasversalmente maggiore autonomia a tutti i richiedenti o, al contrario, di negarla a chiunque.
Lo si dovrebbe ovviamente fare per ognuna delle 23 materie trasferibili, a partire da quelle più delicate, come l’istruzione, l’ambiente e la politica energetica. Come criterio minimo, bisognerebbe almeno richiedere che i conti della regione siano in ordine. per il momento, tuttavia, non c’è nulla di tutto questo.