Sradicamento e casa (doppiozero.com)

di Ivan Carlot

Vengono spesso chiamate odissee le esperienze 
di coloro che sbarcano, che attraversano il mare 
o altre frontiere in cerca di aiuto. 

La forza comunicativa di tale espressione punta all’enfasi sui pericoli e le incertezze, sull’eventuale irregolarità e la lunga durata delle peripezie verso un arrivo, un altrove. Ma i protagonisti delle odierne migrazioni non si ritrovano in quella parola, e ancor meno trasmettono immagini associabili a una loro realizzata o possibile odissea.

Espressione troppo letteraria e, appunto, enfatica; ma, soprattutto, estranea alla direzione delle rotte odierne, alle quali ‘il pubblico’ ascrive classiche traversie mentre la tensione e il senso sono rovesciati. Coloro che cercano protezione o migliore fortuna si allontanano dalle loro terre, abbandonano la casa; Odisseo (Ulisse), nella vicenda narrata e a meno di non travisarne l’intenzione, è impegnato nel viaggio di ritorno, contrastato e principalmente deciso a rientrare nella sua isola.

L’immaginario e la concretezza, quindi, oltre i tempi, i paesaggi e le mete, cambiano molto.

Renos Papadopoulos dedica all’Odissea alcune pagine intense nel libro da poco tradotto in italiano da Bollati Boringhieri: Dislocazione involontaria. Trauma e resilienza nellesperienza di sradicamento. Già nella prima parte del testo, dove Papadopoulos compie un’accurata e piana fondazione epistemologica della materia affrontata, incontra l’opera omerica per farne affiorare in filo narrativo centrale e la carica coinvolgente.

La stessa che rimane viva attraverso i millenni e nel dialogo con le diverse culture, anche nel saper cogliere, far parlare le mutazioni e potenzialità del sentire umano del ritorno.

Il ritorno a casa condensa una pluralità di significati, da quelli più ampi, comuni o straordinari, a quelli che prendono forma nella particolarità biografica delle vicende. Una pluralità di declinazioni che conferma tuttavia il versante unitario in cui s’inscrivono tali variazioni.

Papadopoulos mette subito in attivo il suo metodo fatto di riferimenti disciplinari diversi e offerti con accortezza, concretezza, svolgendo e puntualizzando le interconnessioni. Attinge all’etimologia senza vincolarne la dinamica, portandola a interloquire con le implicazioni filosofiche e di cura. Si sofferma su una parola fondamentale del greco antico, ‘nostos’, il ritorno perlopiù verso la propria dimora, notando che essa non è presente nel greco moderno, dove tuttavia vige diffusamente l’aggettivo ‘nostimos’.

La valenza odierna di quest’ultimo marca uno scostamento rispetto alle principali accezioni originarie, relative al ritorno favorevole o a ciò che è gustoso, genuino, fresco e abbondante. Oggi descrive generalmente bontà e delizia che hanno un legame con la casa e la famiglia.

Le differenze e le continuità in un tale campo semantico sono rivelatrici, testimoniano le connessioni “viscerali” e autentiche che si generano, che permangono in relazione all’ambiente familiare. L’anelito al ritornare diviene allora qualcosa di più corposo di un sentimentalismo nostalgico, o del pur benefico attaccamento che permette di affrontare con sufficiente sicurezza le esplorazioni.

Va oltre l’eventuale spostamento nello spazio e mette in contatto con la potenza trasformativa dell’appartenenza, rivisitata. Pensare le migrazioni e le questioni poste dai migranti, senza semplificazioni ingenue o malevole che rimuovono la sfera del ritorno, richiede la disponibilità a coniugare le molteplici sequenze del viaggio e a cogliere il “paradosso cruciale” costituito dalla casa.

Sembra una contraddizione l’insistenza sulla “esperienza umana della casa” di un testo dedicato al comprendere le migrazioni. La lettura tuttavia, soprattutto se accompagnata dal confronto con la pratica, invita a sostare sulle domande che si pongono, a transitare attraverso i paradossi rappresentati dall’immagine individuale, culturale e collettiva della casa.

Dove non vale risolvere subito la tensione tra l’avere o non avere una casa, bensì approfondire le circostanze reali, anche drammatiche, le tradizioni e immaginazioni intorno a questo centro. Papadopoulos esplicita la sua duplice tesi al proposito: per gli esseri umani non è possibile rimanere a lungo “in un limbo”, senza alcun riferimento a un “senso di casa” e, al tempo stesso, in ciascuno “è presente un’immagine idealizzata della casa”.

Si sviluppa così una transizione tra l’abitare case reali, gli spazi oggettivi con i loro diversi limiti, e l’idea astratta, duratura di casa, insieme ai passaggi imprevedibili da un livello all’altro, che comprovano il paradosso. Per questo suo “far parte della natura umana” e per la fondamentale ambivalenza contenuta, la formula data è quella di un “archetipo della casa”.

Nella migrazione, che Papadopoulos ragionatamente propone di definire nei termini più larghi di “dislocazione involontaria”, il sentirsi e il non sentirsi a casa assume una rilevanza decisiva e cangiante, nella messa in crisi e in movimento del “legame rituale con lo spazio geografico”, dell’ethos e dei simboli che rendono l’ambiente carico di familiarità, magia, attrattiva. In questo sentire, localizzato, si gioca a pieno la necessaria rielaborazione dell’identità tra ciò che rimane costante e il cambiamento.

Le circostanze talvolta estreme che mettono alla prova individui, famiglie e gruppi nella capacità di adattamento creativo ai nuovi ambienti agiscono potentemente su questa sfera propria. Ciò rappresenta lo stesso ‘luogo’ in cui affiora il contributo forse più genuinamente radicale e coinvolgente del testo, che concependo l’identità come “qualcosa che si fa”, piuttosto che “qualcosa che si ha”, un crogiolo di interazioni sempre in corso tra versanti individuali e collettivi, consapevoli e inconsapevoli, libera la pluralità di conseguenze generate dalle avversità: non solo malattia, o dolore, sofferenza comune, ma pure “attivazione di risorse”, riconoscersi in meglio.

Un’identità “relativamente salda” rimane molteplice e adattabile, la sua coerenza si nutre dell’attitudine a “contenere tutte le sue varie forme” in un processo originale, che risponde alla frammentazione e contrapposizione mediante l’unitarietà individuale; mentre ogni restrizione, fissazione o divisione dell’identità mina il senso di continuità “onto-ecologica”, quel sentire e essere se stessi in un ambiente circostante plurimo e sufficientemente familiare.

I due cammini, tuttavia, non sono seccamente alternativi, definitivi o irreversibili. La buona notizia che porta Papadopoulos consiste nell’ammorbidire le rigide categorie, anche diagnostiche, mettendole a confronto, storicizzandole e accompagnando la descrizione (tra teoria e racconto dei percorsi di cura) con l’intenzione rivolta ad oltrepassare, emancipare gli interventi d’aiuto in campo interculturale e più in generale, dalle logiche patologizzanti.

Anziché fondare l’assistenza e la cura sulla patologia, sul trauma e l’accertamento della vittima come tale, egli propone una “complessità illuminante”, capace di discernere tra l’essere percepiti da se stessi e/o dagli altri come vittime e lo “sviluppare un’identità di vittima”.

Ripercorrendo e contestualizzando i punti fondamentali tracciati da Stephen Karpman – le triangolazioni ‘drammatiche’ tra le figure di persecutore, vittima, salvatore – e restituendo un quadro di riferimenti dell’evoluzione e involuzione nel concetto di trauma, dei disturbi o disordini “post traumatici”, Papadopoulos decostruisce le presunte oggettività del concetto e ne mostra la connotazione marcatamente discorsiva, equivoca, e pure ideologica.

Il termine trauma, che nella medicina trova ancora una definizione certa quale ferita corporea, ha subito un processo di estensione per designare situazioni eterogenee fino alla “sconfinata polisemia” odierna, la quale ne esalta la fortuna nell’uso e nello scambio, la rende una sorta di chiave per troppe porte.

L’attenzione del testo è guidata oltre la critica alla “industria del trauma”, nell’alveo delle riflessioni che lo animano, per saggiare distinzioni tra il trauma come marchio, che assegna e fissa una “identità traumatica”, e come segno che comunica un messaggio, promettendo spazi di trasformazione a partire dalle avversità incontrate nel passato, fino alle nuove costellazioni possibili nel presente e a venire.

L’opera riflette la lunga esperienza terapeutica e d’insegnamento dell’autore, una conoscenza diretta e vasta, fertile di suggestioni filosofiche e di suggerimenti operativi, senza scorciatoie o semplificazioni, grazie a una consuetudine e cura nell’entrare in comunicazione, anche con i lettori. Il titolo del libro, nella corretta traduzione italiana, può sfuggire all’attenzione, ma le aperture di pensiero e di pratica offerte dall’insieme rappresentano uno studio di grandissimo momento.

Renos Papadopoulos opta ancora per un ottimismo critico e realistico, che si sostanzia in una proposta utile alla meditazione politica sull’argomento, con uno slancio etico e spirituale, dal forte significato umano.

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