Le storie di quelli che hanno perso la vita nel naufragio di Steccato di Cutro e le accuse contro le autorità italiane,
incolpate di avere ritardato i soccorsi
Al padre del ragazzo, che vive in Iran, non ha ancora avuto il coraggio di dire che il figlio di quindici anni è morto. “Se lo sapesse morirebbe anche lui, temo che non reggerebbe una notizia del genere. Gli ho detto al telefono che Meysam è all’ospedale, dopo il naufragio. Nei prossimi giorni dirò che non ce l’ha fatta”.
Piange, silenziosamente. Hadi Ghasemi, 40 anni, è arrivato da Amburgo a Crotone per riconoscere il corpo senza vita del ragazzo avvolto in un sacco di plastica e poi deposto in una delle 68 bare allineate nel PalaMilone, il palazzetto dello sport di Crotone, che è diventata una camera ardente dove avvengono i riconoscimenti e le identificazioni. Era il corpo numero KR55M17 e dopo essere stato riconosciuto dallo zio è tornato ad avere un nome: Meysam Ghasemi, 15 anni, originario di Herat, in Afghanistan. Viaggiava da solo.
Ha una famiglia: padre, madre e altri fratelli che vivono a Mashhad, in Iran. Hadi Ghasemi, lo zio, vive in Germania dal 2009. Anche lui è arrivato in Europa attraversando il mare. Ha preso una barca dalla Turchia, ma in due ore è approdato sulle isole greche, poi Atene, infine si è infilato sotto a un camion che è salito su un traghetto. In questo modo da Patrasso ha raggiunto Ancona, e poi la Germania.
Quando Hadi ha sentito del naufragio in tv, ha capito subito che le loro vite sarebbero cambiate per sempre
“Ho vissuto sette anni in Europa senza documenti”, racconta al telefono. Ora lavora come facchino alla Dhl, mille euro al mese. “Riesco a malapena a mandare qualcosa alla mia famiglia, mio padre ha 85 anni”, continua. Aveva sentito il nipote al telefono un paio di giorni prima che partisse da Smirne, in Turchia. Aveva chiamato per dirgli che si sarebbe imbarcato e sarebbe arrivato in Italia, poi lo avrebbe raggiunto in Germania.
Quando Hadi ha sentito del naufragio in tv, ha capito subito che le loro vite sarebbero cambiate per sempre, pur sperando che il nipote non fosse tra i morti. “Glielo avevo detto che non doveva, non doveva prendere quella barca”. Lo ha riconosciuto da un tatuaggio sul petto, ma una cosa che non capisce e che lo tormenta è perché il corpo del ragazzino abbia così tante ecchimosi sul naso e sulla schiena.
“Era vivace e coraggioso”, racconta. Sul telefono ha diverse foto che mostrano un ragazzo ben vestito, in posa, gli occhi chiari, i capelli alla moda, le mani in tasca. Ora vorrebbe portare la salma in Germania, in Iran non crede che sia possibile portarlo. Intanto è ospitato gratuitamente in un hotel, per qualche giorno, insieme ad altri famigliari delle vittime che stanno arrivando a Crotone da tutta Europa per identificare i corpi.
Anche Alladin Mohibzada è arrivato dalla Germania, ha guidato per venticinque ore per arrivare a Crotone insieme a un amico, Mohammed. Sperava di trovare la zia e la sua famiglia ancora tra i vivi, invece li ha dovuti identificare tra i cadaveri del PalaMilone. “La zia ci aveva chiamati dalla barca: ‘Siamo in Italia, non ti preoccupare, ce l’abbiamo fatta’”. Invece poco dopo c’è stato l’impatto con la secca e il naufragio. “Li ho riconosciuti dalle foto che mi hanno mostrato, non me li hanno fatti vedere”, racconta al telefono.
A Crotone Mohibzada ha scoperto che un nipotino di cinque anni è sopravvissuto al naufragio. “È l’unico vivo di tutta la famiglia”. È sconvolto, ma anche arrabbiato: “Non li hanno soccorsi, li hanno lasciati morire”. E ancora: “Dall’Afghanistan la gente scappa perché ci sono i taliban, c’è la fame, nessuna prospettiva di lavorare”. La famiglia della zia si era trasferita prima in Iran, ma poi il clima contro gli afgani era diventato ostile. Così avevano provato a raggiungere l’Europa pagando cifre molto alte ai trafficanti: ottomila dollari a persona.
Anche la sorella di Yhbraimi Kureishi, un altro afgano di 45 anni che arriva da Francoforte, era scappata dall’Afghanistan perché il marito non riusciva più a trovare lavoro. “Si erano stabiliti a Istanbul, in Turchia, con le loro due figlie. Hanno vissuto lì per due anni, ma non avevano documenti, non riuscivano a lavorare”, racconta. Così hanno deciso di partire. “Ero contrario, ma non ho potuto oppormi alla loro decisione”, racconta. Anche Kureishi ha ricevuto una telefonata dalla sorella poco prima del naufragio: “Siamo quasi arrivati in Italia, è andato tutto bene”. L’uomo, che in Germania lavora come autista, non si dà pace, ha dovuto riconoscere la salma della sorella e delle due figlie. “Le voglio ricordare vive”, dice. Il marito della sorella è tra i dispersi, il corpo non è stato ancora ritrovato.
“Sono state identificate 48 persone dalle famiglie che sono venute a Crotone da tutta Europa e dai sopravvissuti del naufragio, 48 su 68 salme ritrovate”, spiega Chiara Nigro, operatrice della Croce rossa italiana, che sta assistendo i familiari nel Centro di prima accoglienza (Cara) di Crotone all’interno del programma Restoring family links. “Attraverso dei numeri di emergenza e sul nostro sito, le famiglie ci contattano da tutto il mondo per sapere se i loro familiari sono vivi”, continua Nigro. “Al momento dalle nostre ricostruzioni mancano tra le trentacinque e le quaranta persone, che risultano disperse, tra cui molti bambini”.
Nell’imbarcazione c’erano moltissimi bambini, anche sotto ai dieci anni
Sulla barca partita da Izmir, in Turchia, e naufragata a poche miglia dalla spiaggia di Steccato di Cutro, in Calabria, viaggiavano almeno 185 persone, secondo quanto ricostruito dai sopravvissuti. Un video caricato durante la traversata da uno dei passeggeri mostra le persone ammassate nella stiva del caicco, tra loro moltissimi minori. “Si tratta di famiglie afgane e pachistane, molto numerose. Ieri abbiamo dovuto assistere due ragazzi che viaggiavano con altri venti familiari e loro hanno dovuto riconoscere nove componenti della famiglia, tutti morti”, continua Nigro.
Ma l’operatrice racconta che ci sono state anche storie finite bene: una famiglia pachistana residente nei Paesi Bassi ha ritrovato un nipote, sopravvissuto al naufragio, che al momento è nel centro di accoglienza. “Il ragazzo era talmente sotto shock che aveva perso tutti i numeri di telefono e non sapeva chi chiamare”, conclude Nigro, che tuttavia si chiede quante saranno le salme che rimarranno senza un nome, alla fine di questo processo di riconoscimento in corso al palazzetto dello sport di Crotone.
“Nell’imbarcazione c’erano moltissimi bambini, anche sotto ai dieci anni”, conferma Giovanna Di Benedetto, portavoce di Save the children, che sta assistendo i minori sopravvissuti e le loro famiglie. “Nei disegni i bambini hanno rappresentato la barca, con tante persone nella stiva. Alcuni ci hanno detto che non disegnavano da due anni. Si sono messi a disegnare anche gli adulti, hanno mostrato il naufragio, rappresentando i vivi e i morti”, racconta Di Benedetto, che ha una lunga esperienza negli sbarchi sulle coste italiane. “Ho una sensazione di déjà-vu ma anche una grande rabbia, perché sappiamo cosa dovremmo fare per evitare che succedano fatti simili, ma non lo facciamo”.
Ali Qaisar, 28 anni, pachistano di Peshawar, si ricorda solo il rumore molto forte dell’impatto dell’imbarcazione quando si è incagliata in una secca nella spiaggia di Steccato di Cutro. Era ancora buio, le grida delle persone, la calca e l’acqua che è entrata immediatamente nell’imbarcazione. “Chi sapeva nuotare si è salvato, altri sono rimasti schiacciati nella calca”, dice il ragazzo, molto minuto e ancora visibilmente sotto shock.
È stato aiutato a contattare la famiglia da un cittadino di Crotone di origine marocchina, che gli ha prestato il telefono. “Volevo dire a mia madre che sono vivo, ha sentito del naufragio in tv e temeva che fossi morto”, racconta al telefono. “La traversata era andata molto bene, il tempo era stato buono, solo l’ultimo giorno si è alzato il mare e la situazione è diventata critica: nella barca eravamo di quattro nazionalità diverse, mancava l’aria, abbiamo cominciato a litigare”, ricostruisce il ragazzo.
Fino all’impatto con la secca intorno alle 4.30 del 26 febbraio: l’imbarcazione si è rotta a pochi metri dalla spiaggia e alcuni pescatori che erano a riva hanno lanciato l’allarme. Solo in quel momento sono cominciate le operazioni di soccorso. Ma per la maggior parte delle persone a bordo non c’è stato niente da fare.
Le accuse alla guardia costiera
L’imbarcazione in realtà era stata fotografata da un velivolo di Frontex, l’Agenzia europea per il controllo esterno delle frontiere, alle 22.26 del 25 febbraio, diverse ore prima del naufragio. Navigava a 40 miglia dalle coste italiane, in zona Sar (search and rescue, ricerca e soccorso) italiana: i salvataggi quindi sarebbero stati di competenza delle autorità italiane, secondo quanto stabilito dalle convenzioni internazionali. Tuttavia l’evento non è stato classificato come “emergenza”, nonostante l’imbarcazione fosse carica di persone e le previsioni del tempo fossero pessime.
La guardia costiera italiana (che secondo Sergio Scandura di Radio Radicale avrebbe diramato un’allerta per un’imbarcazione in difficoltà sedici ore prima all’avvistamento di Frontex) non è intervenuta alla ricerca del barcone, presumendo che fosse in condizioni di sicurezza, come affermava il comunicato di Frontex, che tuttavia diceva anche che il caicco era sovraccarico e che non c’erano dispositivi di sicurezza. Ma per l’esperto di diritto del mare Fulvio Vassallo Paleologo, chi doveva accertarsi che le persone a bordo stessero bene era la guardia costiera italiana, competente in tema di soccorsi in mare: le autorità italiane avrebbero dovuto verificare la stabilità e la sicurezza dell’imbarcazione, ed eventualmente scortarle in porto.
“Lo dice molto chiaramente la Convenzione di Amburgo del 1979, e i casi in cui si deve intervenire sono stabiliti dall’articolo 9 del Regolamento Frontex 656 del 2014, vincolante per tutti gli stati europei”, spiega Vassallo Paleologo. Il sovraccarico dell’imbarcazione, la presenza di minori o donne incinte, le cattive condizioni del mare o la presunzione che le condizioni del mare potessero peggiorare, l’assenza di dispositivi di salvataggio a bordo sono tra i criteri che devono spingere le autorità a intervenire, almeno per mettere in sicurezza l’imbarcazione, distribuire i giubbotti di salvataggio e scortarla in porto, continua il giurista. Per Vassallo Paleologo, Frontex aveva comunicato alla guardia costiera che l’imbarcazione era sovraccarica e che non aveva in dotazione dispositivi di sicurezza, perciò le autorità italiane sarebbero dovute intervenire per assicurarsi che la situazione fosse sicura.
Della stessa idea è l’ammiraglio in pensione della guardia costiera italiana Vittorio Alessandro, secondo cui non ci sono dubbi che si sarebbe dovuto intervenire alla ricerca dell’imbarcazione, anche in cattive condizioni del mare, appena c’è stata la segnalazione di Frontex: “Lo stabiliscono le linee guida dell’Imo, l’autorità marittima internazionale”.
Dopo diversi giorni di silenzio, il 1 marzo Vittorio Aloi, comandante della capitaneria di porto di Crotone, ha dichiarato che la scelta di non intervenire non è stata dettata dalle condizioni del mare, ma dalle “regole d’ingaggio” della guardia costiera, quindi da una catena di comando che secondo Aloi “sempre più spesso non dipende solo dal ministero dei trasporti, responsabile dell’attività della guardia costiera, ma anche dal ministero dell’interno”, in base a “degli accordi ministeriali”.
La nostra è una città di mare e in una città di mare le leggi del mare le conoscono tutti
Il procuratore di Crotone, Giuseppe Capoccia, inizialmente non ha aperto un’inchiesta sui soccorsi e sui presunti ritardi, ma soltanto sul naufragio, per il quale sono stati arrestati tre presunti scafisti, un turco di 45 anni e due pachistani, tra cui un minorenne. Sono accusati di lesioni, naufragio colposo e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Ma il 2 marzo la procura ha aperto un’indagine contro ignoti, sul ritardo nei soccorsi.
Alcuni cittadini di Crotone non accettano la ricostruzione delle autorità e stanno raccogliendo dalle famiglie delle vittime i mandati per presentare un esposto alla procura. Filippo Sestito, responsabile dell’Arci di Crotone, racconta: “Gli sbarchi su questa costa sono frequenti, ma non erano mai successi episodi così gravi, come questa strage. Questa vicenda, quei corpi sulla spiaggia, le bare al PalaMilone hanno lasciato un impatto molto forte dal punto di vista emotivo. La nostra è una città di mare e qui le leggi del mare le conoscono tutti: in questa vicenda non sono state rispettate”.
Per questo Sestito promette battaglia: “Quando il caicco si è incagliato non c’era nessun soccorso: non era mai successo, qualcosa si è inceppato nella catena di comando”. E poi aggiunge: “Vogliamo chiarezza. E poi vorremmo che si trovassero delle degne sepolture per queste persone”.