Come fa a non vedere gli effetti dell’inverno demografico anche sul sistema pensionistico,
se aumenta il numero dei baby boomers in pensione e diminuisce quello di chi paga?
A leggere la relazione di Maurizio Landini al XIX Congresso della Cgil, verrebbe da chiedersi (e da chiedergli) in che mondo vive, se in Corso d’Italia arrivano i bollettini dell’Istat, i Focus dell’Anpal, gli Osservatori sull’occupazione e sulle pensioni dell’Inps, i dati sulle comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro, le previsioni dei demografi e la vasta letteratura sul mercato del lavoro.
Perché è senz’altro vero che l’Italia ha un sacco di guai, vive – come altri Paesi – sul filo del rasoio di una guerra alle porte di casa, ha tassi di occupazione più bassi e di disoccupazione più alti dell’Eurozona, è connotata da ampi settori di lavoro precario e da un diffuso lavoro sommerso che ormai ha acquisito un carattere strutturale, è afflitta da uno storico divario territoriale che stenta non solo a superare, ma anche ad affrontare nel quadro del Pnrr. Ma è altrettanto vero che negli ultimi anni sono emerse novità inattese ed importanti che hanno aperto nuovi fronti nel sistema produttivo.
È lo stesso Landini a dover riconoscere, dopo essere passato in rassegna alla sequela di afflizioni collettive: “Questo non vuole dire che non vi sia stata alcuna crescita. Negli ultimi due anni vi è stata una ripresa economica addirittura superiore a Francia e Germania”. Ed ha sicuramente ragione quando rivendica il contributo fornito dai sindacati e dai lavoratori – con i protocolli della sicurezza durante la fase acuta della pandemia – nel garantire la continuità dei processi produttivi (a parte la sbandata sul green pass), ma Landini dovrà riconoscere che a questi risultati hanno concorso altri fattori.
Quando l’economia era incaprettata dalla sospensione dei licenziamenti (che ha consentito di ridurre di 250mila unità i recessi dal rapporto di lavoro rispetto l’anno precedente, mentre a fatto perdere anche per mancate assunzioni 900mila posti di lavoro in particolare di donne e di giovani) i sindacati presagivano che, terminato il blocco ci sarebbe stati milioni di licenziamenti, quando invece tutti sono rimasti a bocca aperta davanti a un inusitato numero di dimissioni, per spiegare il quale si è tornati alla poesia di un nuovo stile di vita, quando in realtà si trattava di lavori meglio retribuiti, perché le aziende anziché licenziare non erano in grado di assumere per mancanza di manodopera adeguata o in certi casi persino disponibile.
Tanto che i lavoratori più qualificati – in certe zone del Paese – erano in grado di avverare la profezia di Pietro Ichino: del lavoratore che sceglie il padrone. Tutto ciò in presenza di una grave crisi energetica che avrebbe messo in ginocchio le famiglie e le imprese, mentre in pochi mesi è stato possibile liberarsi della dipendenza dalla Russia, senza dover fare razionamenti e cessazioni o interruzioni di attività.
Oggi l’aspetto più grave – anche in prospettiva – è la crisi del marcato del lavoro sul versante dell’offerta: una condizione non recuperabile in breve tempo, indicata da tutte le fonti come uno dei più seri handicap per la crescita. Queste analisi non sono propaganda del padronato.
Un recente Rapporto della Fim-Cisl (Cruscotto, presentato nel gennaio scorso) ha delineato un quadro economico/occupazionale/retributivo, che non è una notte in cui tutte le vacche sono nere. Ha scritto nell’introduzione di sintesi, il segretario Franco Benaglia che “il rapporto ci consegna alcune chiavi di lettura assai indicative di tendenze ormai affermate nella categoria:
– Pur dentro un rallentamento della produzione industriale il settore vede aumentare il saldo commerciale e i mesi di produzione assicurata
– L’occupazione ha sofferto gli anni della pandemia, della guerra e dei costi energetici, ma non ha subito gravi perdite nel confronto con altre crisi e al passato
– Nella metalmeccanica sono presenti tassi di lavoro precario o a termine ben più bassi di quelli dell’intera economia
– La produttività, malattia storica dell’economia italiana, è cresciuta di 15 punti percentuali in un decennio
– Un lavoratore metalmeccanico guadagna in media oltre 40mila euro ed i salari, anche grazie agli accordi cosiddetti separati, sono aumentati fino al 2021 più dell’inflazione
– Il tasso di infortuni è da una decina d’anni in calo, sebbene tale miglioramento si sia arrestato nel recente passato, ed è più basso di altri paesi europei
– La formazione continua coinvolge un numero di lavoratori crescente, certamente non a sufficienza rispetto all’accelerazione della innovazione tecnologica
– Esplode il tema della scarsità di manodopera professionalizzata rispetto ai bisogni delle imprese
– I differenziali retributivi di genere sono più bassi dell’economia in generale
– Purtroppo si indebolisce la presenza della metalmeccanica nel Mezzogiorno del Paese”.
– Nella metalmeccanica sono presenti tassi di lavoro precario o a termine ben più bassi di quelli dell’intera economia
– La produttività, malattia storica dell’economia italiana, è cresciuta di 15 punti percentuali in un decennio
– Un lavoratore metalmeccanico guadagna in media oltre 40mila euro ed i salari, anche grazie agli accordi cosiddetti separati, sono aumentati fino al 2021 più dell’inflazione
– Il tasso di infortuni è da una decina d’anni in calo, sebbene tale miglioramento si sia arrestato nel recente passato, ed è più basso di altri paesi europei
– La formazione continua coinvolge un numero di lavoratori crescente, certamente non a sufficienza rispetto all’accelerazione della innovazione tecnologica
– Esplode il tema della scarsità di manodopera professionalizzata rispetto ai bisogni delle imprese
– I differenziali retributivi di genere sono più bassi dell’economia in generale
– Purtroppo si indebolisce la presenza della metalmeccanica nel Mezzogiorno del Paese”.
Ma c’è di più.
Come scrive Mara Guarino su Itinerari Previdenziali (citando le fonti come evita di fare Landini): Il 2022 è stato un anno di forte crescita di tutti gli indicatori economici, che hanno proseguito e incrementato il forte rilancio post Covid dell’anno precedente.
Alla ripresa di Pil, delle esportazioni e produzione industriale ha fatto eco quella dell’occupazione, tanto che in chiusura d’anno – a dicembre 2022 – l’Istat contava 23 milioni e 215mila occupati, 334mila in più rispetto a dicembre 2021 (+1,5%). Di fatto, l’ennesima cifra da record toccata nel 2022, così come è da record anche il tasso di occupazione, arrivato per la prima volta a quota 60,5% … leggi tutto