di Lorenzo Forni
Lo scorso novembre la Commissione europea ha pubblicato la sua proposta di riforma delle regole fiscali europee, note come Patto di Stabilità e Crescita. L’applicazione delle regole era stata sospesa durante il periodo pandemico, ma i piani sono di farle rientrare in vigore, riformate, dal 2024. C’è largo consenso sul fatto che le regole fiscali vadano riformate e su questo aspetto non mi dilungherò (a questo proposito chi è interessato può consultare la Prometeia Discussion Note n. 18 dal titolo «The debate on the reform of the EU fiscal rules» del dicembre 2021).
La questione della riforma del Patto è cruciale poiché siamo in un contesto in cui lo spazio fiscale si sta riducendo, dopo il forte aumento del debito a causa Covid e degli ulteriori interventi di bilancio per fare fronte ai rincari energetici. I tassi di interesse stanno salendo e la Banca centrale europea ha terminato i programmi di acquisto dei titoli di Stato.
Quindi la forma esatta che prenderanno le regole fiscali europee nel 2024 avrà importanti implicazioni per il nostro Paese che vanno valutate attentamente e, non a caso, si è aperto un dibattito su questo tema. Vorrei intervenire su due aspetti: quello tecnico e quello politico, che sono intrinsecamente collegati. Comincerò dal primo.
Nonostante la complessità del tema, la proposta della Commissione contiene alcuni elementi che si possono valutare positivamente. La proposta elimina le regole numeriche automatiche di convergenza al 3% di disavanzo e al 60% di debito/Pil, propone di concordare con i singoli Paesi un profilo per l’andamento del debito su un orizzonte di medio periodo, e introduce una regola sulla spesa che tra tutte le regole fiscali è quella che genera meno «austerità».
In particolare, la crescita della spesa pubblica – al netto degli interessi e dei sussidi di disoccupazione – sarà vincolata dalla necessità di mantenere il debito su un sentiero sostenibile. Le entrate potranno oscillare con il ciclo economico, scendere durante le recessioni e salire durante le espansioni, permettendo al disavanzo di aumentare nelle fasi di recessione e calare nelle fasi di espansione, contribuendo a stabilizzare l’economia. Questo è un passo avanti rispetto all’aggiustamento minimo annuale all’obiettivo di disavanzo in pareggio, definito in termini aggiustati per il ciclo, che caratterizza le regole attuali.
In tale contesto, la Commissione propone di classificare i Paesi come ad «alto», «medio» e «basso» rischio sulla base dell’andamento prospettico del debito pubblico e poi concordare con loro un profilo programmatico per le spese primarie, tale da garantire che il debito rimanga o si avvii su un sentiero discendente. Per i Paesi ad «alto rischio» il debito deve avviarsi su un sentiero discendete dopo un piano di aggiustamento di quattro anni; per i Paesi a rischio medio, questo periodo potrebbe essere esteso fino a sette anni.
In caso di disaccordo tra Paese e Commissione, quest’ultima avrebbe l’ultima parola. Infatti, la proposta prevede che la Commissione proponga lo scenario di riferimento, valuti la controproposta del Paese e raccomandi al Consiglio Ecofin (formato dai ministri dell’Economia e delle Finanze dei Paesi membri) un profilo programmatico per le spese primarie se ritiene che la controproposta sia insufficiente. Se il Paese non accetta il profilo indicato dalla Commissione, si prevede che il Consiglio adotti lo scenario di riferimento della Commissione.
Nel passaggio appena menzionato subentrano le considerazioni politiche, perché la valutazione prospettica del debito/Pil dipende fortemente dalle ipotesi sulla crescita e sui tassi di interesse, sulle quali ci sono significativi margini di discrezionalità. Quindi, sostanzialmente ci si può trovare nella situazione in cui Commissione e Consiglio sono in grado di mettere un limite alla spesa primaria al netto degli interessi di un Paese membro sulla base di ipotesi non condivise. È corretto che la Commissione e il Consiglio abbiano l’ultima parola sull’andamento delle spese primarie di un Paese?
Per rispondere a questa domanda, forse vale la pena fare un passo indietro e chiederci più in generale come dovremmo porci nei confronti delle regole fiscali europee. A mio avviso, è importante considerare che la sorveglianza europea sulla sostenibilità delle nostre finanze pubbliche rappresenta un’ulteriore garanzia per investitori e risparmiatori, e ci permette di pagare tassi di interesse più bassi sul nostro debito. Quindi credo che vada a nostro vantaggio. Purtroppo, è difficile argomentare che siamo in grado di autoregolarci e che non abbiamo bisogno delle regole fiscali europee.
Per fare solo un esempio, ricordo che nel 2012 abbiamo inserito nella nostra Costituzione l’articolo 81 il cui secondo comma recita: «Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali». Quindi il disavanzo, una volta aggiustato per il ciclo economico, sarebbe ammesso solo «al verificarsi di eventi eccezionali». Però, dal 2013 ad oggi, le Camere hanno votato a maggioranza assoluta per ricorrere all’indebitamento in ogni singolo anno.
Se riteniamo che la Commissione europea non sia l’organo più adatto a supervisionare l’applicazione delle regole fiscali, perché poco indipendente dalle pressioni politiche dei Paesi maggiori, proponiamo allora che si rafforzi il ruolo dei Fiscal Council indipendenti, quali in Italia l’Ufficio parlamentare di Bilancio e in Europa l’European fiscal board (Efb, un ente europeo indipendente che ha il compito di fornire consulenza e raccomandazioni sulle politiche fiscali e di bilancio degli Stati membri dell’Ue) … leggi tutto
* Università di Padova e Prometeia