Almeno 86 persone,
di cui 35 bambini, sono morte nella notte tra il 25 e il 26 febbraio nel lembo di mare che bagna Steccato di Cutro, località di 400 abitanti in Calabria, tra Crotone e Catanzaro. Erano partiti dalla Turchia a bordo di un’imbarcazione precaria e sovraccarica, con l’obiettivo di raggiungere l’Unione Europea e in molti casi ricongiungersi con i familiari che avevano affrontato, prima di loro, gli orrori della traversata.
Le decine di corpi riportati a riva dalle acque confermano il fallimento delle politiche europee – oltre che italiane – per la gestione dei flussi migratori, eccessivamente complicate già sulla carta e inutili, poi, nella pratica. È di ieri, 28 marzo, il rapporto del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite che, in tre anni di indagine, ha trovato “prove schiaccianti” secondo le quali le persone bloccate in Libia, mentre tentano di raggiungere l’Europa, vengono sistematicamente torturate e costrette alla schiavitù sessuale. Il rapporto critica l’Unione Europea per “il sostegno fornito alla Guardia costiera libica in termini di allontanamenti, respingimenti e intercettazioni”.
“Non stiamo dicendo che l’UE e i suoi Stati membri abbiano commesso questi crimini. Il punto è che il sostegno dato ha aiutato e favorito la commissione dei crimini”, ha detto uno dei membri della commissione, Chaloka Beyani. Le autorità libiche, “hanno ricevuto supporto tecnico, logistico e monetario dall’Unione Europea e dai suoi Stati membri per l’intercettazione e il rimpatrio dei migranti tra le altre cose”.
Bloccata dalle sue divisioni interne, l’Unione da tempo volta le spalle e rimanda il momento in cui sarà necessario fare i conti con una situazione diventata insostenibile.
Oggi le politiche di asilo dell’Unione europea sono riassunte nel Sistema europeo comune di asilo (CEAS), che però si limita a disciplinare la protezione internazionale, riconosciuta quando ci sono i presupposti per l’attribuzione della protezione sussidiaria o dello status di rifugiato. Da lì, i singoli Stati membri possono muoversi in modo indipendente per gestire le procedure di accoglienza, creando un sistema estremamente frammentato: “Il sistema europeo di asilo è ‘comune’ solo per modo di dire”, spiega a Valigia Blu Chiara Favilli, docente di diritto dell’Unione Europea all’Università di Firenze.
Nel 2020, la Commissione Europea ha presentato una proposta di riforma per il CEAS – definita un “nuovo inizio” – e la scorsa estate i rappresentanti del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’Unione Europea si sono impegnati a far entrare in vigore le modifiche entro aprile 2024, prima della fine dell’attuale legislatura. La riforma prevede sei punti fondamentali, per ora piuttosto vaghi: ottimizzare le procedure di controllo alle frontiere, riformare il codice Schengen, migliorare i sistemi di ricollocazione, attrarre talenti, sostenere partenariati internazionali e puntare su “flessibilità e resilienza” per “garantire una reazione comune e rapida alla crisi migratoria”.
Nessun accenno viene fatto, però, all’introduzione di nuove strade regolari per l’arrivo dei migranti, la cui mancanza è uno dei problemi principali del CEAS.
Riforme mancate
Nell’eterno dibattito sulla riforma delle politiche europee di asilo, l’elefante nella stanza è la necessità di riformare il Regolamento di Dublino, entrato in vigore nel 1997 e arrivato oggi alla sua terza versione, ampiamente criticata.
È il documento che stabilisce, tra le altre cose, che il paese di primo arrivo dei migranti sia quello tenuto a farsi carico delle loro domande di asilo, un meccanismo che secondo molti fa ricadere eccessive responsabilità su pochi paesi, come Italia e Grecia, che per la loro posizione geografica rappresentano il punto di ingresso obbligato per centinaia di migliaia di persone ogni anno. Nonostante le tante dichiarazioni a favore di un’equa distribuzione delle responsabilità, in più di vent’anni l’UE non è mai riuscita a trovare una soluzione alternativa.
“Tra gli Stati membri non c’è nessuna volontà a far in modo che sia l’Unione a gestire le politiche di immigrazione”, spiega Favilli. “Si invoca l’Unione quando gli Stati hanno bisogno di assistenza per alleggerire le proprie responsabilità, ma poi non le si consente di sviluppare una vera e propria politica, perché significherebbe ridurre il potere dei singoli governi”.
Negli anni ci sono stati vari tentativi di riformare il Regolamento, tra cui una proposta approvata dal Parlamento europeo nel 2017, ma nessuno è mai stato portato a termine a causa dei disaccordi tra i vari Stati membri. Luca Masera, docente diritto penale all’Università di Brescia e membro del Consiglio direttivo dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, spiega a Valigia Blu che “nel contesto europeo di oggi, i discorsi relativi alla necessità di riformare il Trattato di Dublino rimangono più in ambito accademico che reale”.
Anche l’ultima proposta di riforma presentata nel 2020 rischia di non soddisfare le aspettative: “È un pacchetto corposo, ma poco ambizioso”, ha spiegato Favilli, sottolinenando che ormai molti nuovi progetti relativi all’immigrazione in ambito europeo vengono annacquati dalla consapevolezza dei fallimenti accumulatisi negli anni.
Soccorso o controllo?
Al di là delle necessarie riforme al sistema di asilo, anche i tentativi pratici dell’Unione europea di affrontare il problema delle morti in mare si sono rivelati fallimentari. “L’UE potrebbe organizzare delle missioni di ricerca e soccorso in mare, ma questo non è mai stato fatto in maniera efficace”, ha detto Masera a Valigia Blu facendo riferimento a operazioni come Mare nostrum, lanciata dal governo italiano nel 2013, e le successive Triton e Sophia, a guida europea.
“Mare Nostrum aveva come finalità istituzionale il salvataggio di vite in mare. Le altre missioni europee, come Triton e Sophia, puntavano soprattutto sul controllo e sul blocco degli accessi non regolamentati, a discapito dell’efficacia nella gestione dei soccorsi”, ha spiegato l’esperto. Di conseguenza, entrambe le missioni si sono rivelate inefficaci, soprattutto per la carenza di mezzi messi a disposizione. Anche in questo caso, “l’Unione Europea potrebbe fare qualcosa, ma manca la volontà politica”, ha detto Masera.
Per una volta, poi, il problema non sono i fondi, dato che L’UE continua a investire cifre rilevanti nella gestione dei flussi migratori. Il bilancio 2021-2027 ha destinato 9,9 miliardi di euro al Fondo Asilo, migrazione e integrazione (Fami), oltre il triplo rispetto ai 3,1 miliardi allocati per il periodo 2014-2020. Il 63,5% di questi soldi saranno destinati a programmi gestiti congiuntamente dall’UE e dagli Stati membri, mentre la parte restante sarà gestita direttamente dall’Unione Europea e destinata a operazioni di assistenza in situazioni di emergenza, rimpatri, e ricollocamenti, intesi come “sforzi di solidarietà”.
I muri che già esistono
Nella zona grigia lasciata da un sistema complessivamente inefficiente, i singoli Stati membri dell’UE stanno adottando politiche individuali per far fronte ai flussi migratori, mettendo gli interessi nazionali davanti alle richieste di solidarietà. In alcuni casi, l’ampia libertà lasciata ai vari governi e un’opposizione debole da parte dell’Unione europea hanno permesso la costruzione di veri e propri muri.
Secondo un rapporto del Parlamento Europeo, tra il 2014 e il 2022 i muri presenti sui confini europei, sia con paesi esterni che all’interno dell’area Schengen, sono passati da 315 chilometri a 2.048 chilometri, sulla base di due motivazioni principali: limitare i flussi migratori e combattere il terrorismo. Oggi, tra i confini dell’UE esistono 19 muri o barriere fisiche, sparsi su 12 paesi.
Basta guardare all’Ungheria di Viktor Orbán, che dal 2015 ha speso oltre un miliardo di euro per erigere una barriera al confine con la Serbia, con tanto di filo spinato e telecamere, volta a bloccare l’arrivo di migranti che cercano di entrare via terra nel territorio europeo. L’iniziativa è stata applaudita da vari paesi membri, come Austria e Lituania, che vorrebbero replicarla. Per ora, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha dichiarato che l’UE non finanzierà progetti simili. “Si tratta di una magra soddisfazione, ma politicamente l’opposizione è stata molto debole”, ha detto però Masera, affermando che di fatto l’Unione non ha messo in atto azioni concrete per bloccare la creazione di questi muri.
Più a sud, negli ultimi anni si sono accumulate anche notizie di respingimenti illegali effettuati dalla Grecia nei confronti di migranti che cercavano di arrivare in Europa via mare o via terra, attraverso il confine con la Turchia. Le violazioni sono state tanto palesi che lo scorso giugno la Commissaria europea agli affari interni, Ylva Johansson, ha chiesto alla Grecia di mettere fine a queste pratiche, pena la perdita o la riduzione dei fondi erogati da Bruxelles.
I numeri indicano però che in molti casi i tentativi di sigillare i confini nazionali non stanno portando ai risultati sperati: secondo gli ultimi dati dell’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo (Euaa), nel 2022 i 27 Paesi membri dell’Unione, più Svizzera e Norvegia, hanno ricevuto 966 mila richieste di asilo, il 50% in più rispetto al 2021 e il numero più alto dal 2016, anche al netto delle circa 4 milioni di persone arrivate dall’Ucraina che hanno fatto domanda di protezione temporanea.
Un’Europa a “zero-asilo”
Sebbene in modo meno plastico, senza costruire barriere o impedire fisicamente alle persone di entrare nel proprio territorio, molti altri Stati membri dell’UE continuano a operare per rendere più difficili e tortuose le procedure di accesso per i migranti. L’Italia rientra a pieno titolo tra questi, come dimostra da ultimo il nuovo “Codice di condotta” per le navi delle Organizzazioni non governative (Ong) approvato dal governo Meloni lo scorso febbraio, che complica volutamente le procedure per effettuare operazioni di ricerca e soccorso in mare.
Poco lontano, a partire dal 2015 la Danimarca ha profondamente modificato il proprio sistema di asilo, abbandonando l’obiettivo dell’integrazione dei rifugiati a favore di pratiche che li incoraggiano a fare rientro al più presto al loro Paese d’origine. Nel 2021, la Prima ministra Mette Frederiksen ha dichiarato candidamente che il suo governo intende ridurre a “zero” le richieste di asilo, un obiettivo non impossibile considerando che due anni fa il Paese ha ricevuto soltanto 1.547 domande, il numero più basso dal 1998 e appena un decimo rispetto ai dati del 2016.
Iniziative simili trovano spazio anche al di fuori dell’UE. Nelle ultime settimane, per esempio, ha fatto discutere anche una nuova proposta presentata dal governo britannico di Rishi Sunak per vietare gli sbarchi di migranti che attraversano il canale della Manica, con pratiche che la stessa Segretaria agli Interni Suella Braverman ha dichiarato potrebbero essere incompatibili con la Convenzione europea sui diritti umani.
Volontà debole
L’Unione Europea ha dimostrato di avere i mezzi necessari per gestire crisi migratorie in tempi brevi. L’ultimo esempio arriva dalla guerra in Ucraina: a febbraio 2022, quando la Russia ha invaso il paese, l’UE si è immediatamente mobilitata per fornire alle persone che scappavano dal conflitto la protezione temporanea, uno status che garantisce tra le altre cose la possibilità di spostarsi liberamente, vivere e lavorare nei paesi dell’UE accedendo alle cure mediche, ai servizi bancari e al sistema educativo.
Come detto, oggi più di quattro milioni di persone sono arrivati in UE dall’Ucraina, senza che questo flusso sollevasse allarmismi o atti propagandistici xenofobi minimamente paragonabili a quelli che da anni sentiamo ripetere nei confronti di chi raggiunge l’Europa da regioni come Africa o Medio Oriente. Nel 2021 l’Unione si è attivata anche per favorire l’evacuazione di migliaia di persone dall’Afghanistan, in seguito al rapido ritiro delle truppe statunitensi e al ritorno al potere dei talebani.
I mezzi per gestire le persone migranti che fuggono dai propri paesi esistono, e sono già stati utilizzati in passato. Al di là della misure straordinarie messe in atto in risposta a emergenze improvvise e circoscritte, però, da anni la mancanza di volontà politica blocca la riforma dell’intero sistema. Ma un cambiamento di passo è ormai una necessità non più rimandabile.