Migranti, l’italiano che non si insegna (corriere.it)

di Gian Antonio Stella

Non c’è mai stata una vera politica nazionale 
per insegnare la lingua agli immigrati, come 
avveniva ai nostri emigrati in America. 

E ipotizzando di eliminare del tutto i corsi si dimostra una smemorata brutalità

«La polizia li trascinò in carcere sottoponendoli a un trattamento abbastanza pesante», scrisse il New York Times , «ma la principale accusa che si poteva muover loro era quella di non saper parlare inglese». E finì con l’assalto d’una folla assatanata al carcere della Contea e il linciaggio di quei nostri undici nonni assolti dall’accusa d’aver ucciso un poliziotto.

Era il 1891. «Costano così poco questi italiani che val la pena di impiccarli tutti», disse l’allora Segretario di Stato Usa in una vignetta in cui porgeva una borsa di denaro risarcitorio al nostro ambasciatore a Washington. E quella fu solo una delle infinite e astiose accuse ai nostri emigrati, dalla Svizzera all’Australia, di rinserrarsi nelle Little Italy, spesso luoghi di disagio e violenza, per le difficoltà a imparare la lingua del posto.

Uno stereotipo che pesò moltissimo sulla nostra emigrazione. Tutto rimosso.

Per questo puzzano di smemorata brutalità certi emendamenti leghisti che mirano alla «riduzione dei servizi erogati» nei centri di raccolta degli immigrati e dei richiedenti asilo fino «all’eliminazione di corsi di lingua». Altri Paesi europei più aperti e saggi del nostro, pur ospitando quote proporzionalmente maggiori di immigrat i, fanno scelte diverse.

E studiano dossier e rapporti che dimostrano come proprio i corsi di lingua e di formazione possono portare perfino fra immigrati scelti a caso (vedi Intensive Coaching of New Immigrants, di Pernilla Andersson Joona e Lena Nekby) ad aumenti fino al 43% nella prima occupazione, con effetti positivi sull’economia, la convivenza, la pace sociale e la gestione della piccola criminalità. Noi no.

Rischiamo anzi di lanciare un messaggio muscolare e securitario di questo tenore: non ci interessa che ci capiate o no, che vogliate inserirvi o no, ci basta parcheggiarvi per limitare i danni in grandi contenitori (di «carico residuale», secondo la sventurata definizione del Viminale) in attesa di rispedirvi indietro o smistarvi altrove. Per dirla col vecchio assessore lombardo Piergianni Prosperini poi condannato per traffico d’armi con l’Eritrea, «Camèl, barchèta e te turnet a ca’».

Ma può essere questa, al di là di ogni umana pietas, in un Paese coi conti pensionistici in grave affanno («Senza gli immigrati saremmo in una condizione da allarme rosso», ammetteva già nel 2010 l’allora presidente della Camera Gianfranco Fini) e in profonda crisi demografica (le nascite dal 2017 ad oggi sono precipitate dal già allarmante minimo storico di 464.000 a 392.598) la risposta all’ondata migratoria? E alla pressante richiesta degli imprenditori dei più diversi settori di un afflusso di almeno 200mila nuovi lavoratori l’anno?

Ben vengano una nuova politica delle nascite, nuovi incentivi alle aspiranti madri, nuovi asili e nuove regole per i padri da coinvolgere… Ma, come ricorda Corrado Bonifazi, autore de L’immigrazione straniera in Italia , «un bambino che nasce oggi potrà dare il suo contributo, se va bene, fra vent’anni, ma intanto che facciamo, con questi tagli miopi e autolesionisti ai già risibili finanziamenti per la lingua e i corsi di formazione?».

Annaspiamo, risponde il demografo Gianpiero Dalla Zuanna: «L’anno scorso gli artigiani di Treviso hanno organizzato un corso per dieci saldatori cui era garantita l’assunzione a tempo indeterminato a 1.700 euro netti mensili a fine corso: si sono presentati in quattro, tutti stranieri, e han finito il corso in due». Auguri.

Oddio, non è che in passato andasse molto meglio. Come spiegava tre anni fa l’Osservatorio sulle Migrazioni del Centro Studi Luca d’Agliano e del Collegio Carlo Alberto, l’Italia ha sempre avuto una massa di immigrati tra i meno istruiti arrivati in Europa.

Un po’ per il peso dei «vicini» immigrati africani («I tassi d’alfabetizzazione degli adulti sono al di sotto del 50% ancora in 20 Paesi: Afghanistan, Benin, Burkina Faso, Repubblica Centrale Africana, Ciad, Comore, Costa d’Avorio, Etiopia, Gambia, Guinea, Guinea-Bissau, Haiti, Iraq, Liberia, Mali, Mauritania, Niger, Senegal, Sierra Leone e Sud Sudan», ricorda un saggio di Elisabetta Balbo sui percorsi di alfabetizzazione per i rifugiati) ma soprattutto perché, spiega l’economista della Statale Tommaso Frattini, «qui non c’è mai stata una politica nazionale per insegnare l’italiano agli immigrati. Un errore gravissimo.

Mi metto al posto loro: se mi trasferissi io nel Burkina Faso cosa farei? Che ne so del mercato del lavoro locale, della loro lingua e dei loro dialetti, dei meccanismi di reclutamento, di tutte quelle cose che ci consentono di inserirci? La lingua è essenziale per ogni emigrante. Non puoi neanche chiedere asilo, se non sai “come” chiederlo».

«Io sospetto infatti che questo sia il disegno», sorride amara Alessandra Ballerini, l’avvocata che da anni si spende per i rifugiati, «Ignorantia legis non excusat, è vero. Ma qui ogni carta può rovinarti. Già l’immigrato, che magari ha pieno diritto all’asilo, fatica a capire una banale domanda in italiano, come può capire un testo di legge o un modulo burocratico? Sa quanti confondono la “dimora” con la “residenza”? Basta quella svista e sei denunciato per aver dichiarato il falso. Fine di ogni speranza».

Certo, nei capitolati d’appalto per i servizi d’accoglienza l’insegnamento della lingua ai richiedenti asilo c’è: 4 ore a settimana da spartire fino a 50 posti, 72 da spartire (fate voi i conti…) da 601 a 900. Sulla carta, però. Nella realtà il caos, anche per la sciatteria sparagnina nella gestione degli insegnanti, è totale. E quelle ore di lezione spesso in strutture lontane o disastrate con docenti che ci sono e non ci sono e trucchi e sotterfugi e sbracamenti vari finiscono per evaporare in una nuvola. Dove le sole presenze reali sono qua e là, Dio le benedica, quelle del volontariato. Per non dire dei corsi di formazione…

Una scelta ottusa e controproducente, che impedisce anche ai più svegli, volenterosi e preparati, che a volte fanno la fortuna di altri Paesi, di tirar fuori ciò che hanno dentro. Di più: li umilia in un limbo degradato dove sono abbandonati a bighellonare e sopravvivere in una vita senza senso.

 Come tanti nostri avi che a Ellis Island, incapaci di rispondere in inglese su cose che non capivano, tipo i feroci Mental tests for immigrants, spinsero certi sedicenti studiosi razzisti come Arthur Sweeny a giudizi come questo pubblicato nel 1921 sulla North American Revue: «Non abbiamo spazio in questo paese per “l’uomo con la zappa”, sporco della terra che scava e guidato da una mente minimamente superiore a quella del bue, di cui è fratello».

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