Giusto cinquant’anni fa, la notte fra il primo e il due giugno 1970, moriva a Milano Giuseppe Ungaretti, all’età di ottantadue anni.
Quando, il quattro giugno, si svolsero i funerali, nella Chiesa di San Lorenzo fuori le Mura a Roma, il poeta fu accompagnato da familiari, da amici scrittori, da artisti ed allievi, ma da nessun esponente dell’Italia ufficiale. Carlo Bo, suo antico sodale, pronunciò, secondo l’amico e biografo Leone Piccioni che le riporta, parole di questo tenore: “Giovani della mia generazione, in anni oscuri di totale delusione politica e sociale, sarebbero stati pronti a dare la vita per Ungaretti, cioè per la poesia”.
Vittorio Sereni, appresa la notizia della morte, così commentò: “Muore per la seconda volta mio padre”.
Ungaretti non esercitò soltanto un’influenza a dir poco enorme sui poeti più giovani, al punto che Alfonso Gatto in un’intervista dichiarò che tutti si erano abbeverati a quella fonte (L’Allegria), anche se la sete era loro; quanto a Pasolini, da giovane era talmente infatuato del nostro poeta che parenti e ragazzi di Casarsa avevano preso l’abitudine di chiamarlo senza meno “Ungaretti”.
Egli era un poeta realmente popolare. Cosa che oggi riesce difficile anche a pensarsi. In effetti ci sono in circolazione molti bravi poeti, anche bravissimi, ma nessuno che possa paragonarsi a Ungaretti, per la sua fama e, oserei dire, rilevanza sociale.
Quelli che, come me, hanno una certa età ricordano ancora le sue letture dall’Odissea, con quella voce dal fascino ipnotico, cadenzata da lunghe pause, trasmesse dal piccolo schermo prima di ogni puntata dell’omonimo sceneggiato … leggi tutto