di Mario Lavia
Quota zero
Landini potrebbe criticare il governo su mille cose, ma il più grande sindacato del paese conta molto meno che in passato e non ha la forza di influenzare il dibattito pubblico
«Non escludiamo nulla, neppure lo ssiopero!». Era la notizia contenuta nel discorso conclusivo di Maurizio Landini al Congresso della Cgil, il 18 marzo, il congresso che si ricorderà più per l’intervento di Giorgia Meloni che per altro, ma alla fine agli atti c’era almeno questo impegno, lo sciopero contro il primo governo di destra. Invece niente.
La spiegazione di Corso d’Italia è semplice e anche vera: la Cisl di Luigi Sbarra ha detto di no perché ritiene più utile non rompere con un governo che perlomeno li ha ricevuti tante volte nella sala Verde di Palazzo Chigi pur non concedendo mai neppure una briciola.
Ma il problema non è solo quella di una differenza – peraltro tradizionale – tra Cgil e Cisl sulle mobilitazioni ma piuttosto lo scarto che c’è tra gli annunci roboanti del segretario della Cgil e i risultati concreti: un tempo non si faceva balenare uno sciopero generale senza che ci fosse la certezza di poterlo fare.
Lo sciopero generale è un’arma estrema che va usata con cautela, ma allora perché brandirla? Perché esporre la Cgil a una brutta figura, perché di questo si tratta quando si va per menare e si è menati.
La verità che viene alla luce una volta di più è che il sindacato di Landini conta molto meno di prima ed è costretto a ingoiare i niet cislini – e a ragione, dato che quando ha scioperato con la sola Uil ha raccolto ben poche adesioni, dovendo così ripiegare su più innocue manifestazioni interregionali, a Bologna, Milano e Napoli in tre sabati diversi (6, 13, 20 maggio): il classico topolino, saranno belle manifestazioni colorate ma il Paese non si bloccherà, e forse nemmeno se ne accorgerà.
Mentre la Francia esplode, anche grazie a una efficacissima rappresentazione mediatica di un conflitto nel quale si mescolano cose diversissime tra loro, da noi dopo quasi sei mesi di governo Meloni non si è visto altro che manifestazioni: le più disparate, specifiche, parziali senza che alcun soggetto politico fosse capace in qualche modo di riunificare un movimento popolare, una funzione che nella storia d’Italia spesso ha svolto appunto il sindacato che però ormai da tempo non assolve più a questa funzione generale nella società italiana.
E d’altra parte Landini non ha costruito un rapporto, nemmeno conflittuale, con la Confindustria e con i partiti: tramontata l’infatuazione per Giuseppe Conte, al di là degli abbracci per la gioia dei fotografi, la Cgil fatica a essere un punto di riferimento persino per il Partito democratico di Elly Schlein, la quale almeno nelle piazze ci va (anche se piazze “altrui”: finora il Partito democratico non ha organizzato nulla).
Fino al paradosso per cui sul salario minimo i partiti di opposizione fanno ognuno per sé ma forse finiranno per mettersi d’accordo su un testo che sul quale la Cgil nemmeno verrà consultata, e d’altra parte se il Nazareno vuole sapere qualcosa di argomenti sindacali chiede a Susanna Camusso e Annamaria Furlan, mica a Landini.
Parigi brucia per due anni in più di lavoro mentre in Italia salgono i prezzi, non esiste una politica industriale ma solo ritardi sul Pnrr e sul fisco, sulla scuola, sulla sanità il governo è fermo: in parole povere, un sindacato normale avrebbe il dovere di fare qualcosa oltre alle manifestazione colorate e i comizi con le voci arrochite.
Dunque al momento Giorgia Meloni ha tanti problemi ma proprio tanti, tranne uno: l’opposizione dei sindacati che, semplicemente, non esiste. E anche questo la dice lunga sulle attuali dinamiche della democrazia italiana.