Qualche settimana fa ho comprato due biglietti del treno per Napoli,
un regalo per mia figlia dodicenne e per me, un’occasione per una passeggiata in città e per guardare la mostra di Artemisia Gentileschi. Li ha trovati sulla sua scrivania di ritorno da scuola: “Figo! Che facciamo? Andiamo a vedere la galera?”. Ho impiegato qualche minuto a collegare la sua reazione alla serie-tv che aveva finito di guardare di recente.
Le fiction, i film, le canzoni che parlano di carcere, delinquenza, detenzione e pena calamitano i giovani, li entusiasmano, li appassionano al punto da alimentare le loro fantasie e i loro orizzonti, circostanza che rende perplessi molti genitori e educatori. Una squadra di professori del liceo di scienze umane Rousseau di Roma ha deciso di cavalcare questa curiosità, di fare leva su un tema sensibile per intraprendere una ricerca, fornendo strumenti di critica e letture utili a restituire una varietà di pensiero: ambizioso tentativo di colmare lo iato tra finzione e realtà, tra manicheismo e complessità.
Prendendo spunto dal personale bagaglio culturale dei loro studenti, in questi mesi gli insegnanti hanno intrapreso un percorso che attraversa etica, legalità, giustizia, pena, proporzionalità, provando a rispondere alla spinosa domanda: “Perché punire?”.
Accompagnati dai professori di italiano, latino e filosofia, i ragazzi hanno riflettuto sulle regole della scuola, l’istituzione che abitano ogni giorno, si sono confrontati sul senso del sequestro, dell’obbligo, della punizione, hanno letto testi di Beccaria, Dostoevskij, Manzoni, Sciascia, Foucault, hanno trovato affinità e continuità con il mondo di oggi. Ad aprile scorso, nell’ottica di allargare lo sguardo e di fornire nuovi elementi di analisi e critica, il liceo ha invitato nella sua aula magna l’avvocato Flavio Rossi Albertini, legale, tra l’altro, di Alfredo Cospito, detenuto al 41bis.
All’inizio del confronto i ragazzi hanno letto alcuni passaggi delle letture fatte nel corso dell’anno e hanno invitato Rossi Albertini a commentarle. L’avvocato ha esordito citando La colonna infame: “Giacché è men male l’agitarsi nel dubbio, che il riposar nell’errore”. Propendere verso l’innocenza del condannato in situazione di incertezza è un’attitudine mentale che dovrebbero sposare tutti i giudici, in nome del In dubio pro reo. Primo elemento.
Qual è il senso della pena detentiva? In carcere la rieducazione è un’affermazione vuota, perché non esiste una spesa pubblica tale da consentire ai detenuti di fare percorsi virtuosi. Gli educatori sono pochi, gli strumenti riabilitativi scarsi, le possibilità di trovare un collocamento lavorativo adeguato quando si esce dalle galere quasi nulle. In media un detenuto costa alla collettività trecento euro al giorno, denaro speso per permanere in un bagnomaria di noia e violenza, di piattume e nevrosi, in una condizione in cui la possibilità di trasformazione verso la restituzione in una società dei liberi, per chi non ha strumenti propri, è pari a zero. Perché quella stessa spesa pubblica non è stata prima indirizzata per impedire alle persone di sbagliare?
Secondo fondamentale elemento, regalo di Cesare Beccaria: per punire qualcuno bisogna prima porlo nella condizione di non potere sbagliare. Uno Stato ha o meno la legittimazione per punire una persona che vive in un quartiere dormitorio, che abbandona il ciclo scolastico perché nessuno vicino a lui crede nella centralità allo studio, che non ha famiglia né punti di riferimento?
Non dovrebbe forse creare un’alternativa per questa persona? Non dovrebbe lavorare per modificare e estirpare le radici che generano queste condizioni? Perché non si è lavorato a sufficienza per smussare la divisione in classi della società? Seguendo il filone letterario: Dostoevskij fu punito dallo zar ma poi all’ultimo momento salvato dallo stesso sovrano, solo perché era un nobile.
Il terzo elemento di critica arriva da una vicenda più attuale: il caso Alfredo Cospito. Perché garantisti e intellettuali si sono così scandalizzati e schierati con tante energie al fianco dell’anarchico? L’intento era soprattutto quello di sottolineare la necessità della proporzionalità della pena, prevista dalla nostra Carta costituzionale. Come si può attribuire, per un’azione che non ha ferito nessuno, un reato maggiore a quello che è stato attribuito ai fautori della strage di Capaci? 350 kg di tritolo nel secondo caso, un pugno di polvere pirotecnica nel primo.
Quarto elemento: Leonardo Sciascia e la lotta alla mafia. Come si recide l’albero mafioso? La mafia si combatte con il lavoro, con i libri, con la cultura, con il contrasto alla dispersione scolastica, lo scrittore di Recalmuto lo ha espresso in più occasioni. Cosa è stato fatto dallo Stato per andare verso questa direzione?
Non creare condizioni e attività per drenare l’acqua che alimenta la pianta mafiosa e puntare tutto sul 41bis vuol dire non volere guardare alla realtà, ragiona Rossi Albertini, perché se lo strumento fosse stato efficace, dopo trenta anni di attuazione avrebbe combattuto e forse eradicato l’attività mafiosa. Il 41bis, dice l’avvocato “è un simulacro, una scatola vuota che ha come unico effetto quella di rendere impossibile la vita a chi ne è sottoposto”.
Certo, non esistono più le torture di un tempo, non ci sono tenaglie infuocate e non si pratica la regina tormentorum, il sangue oggi non si vede, vero, ma non è tortura essere obbligati a vivere per anni in una stanza di due metri per due, senza potere leggere né scrivere, senza potere abbracciare i propri figli? Che senso ha nella sua attuale applicazione questa misura, che, sulla carta, dovrebbe solo impedire che i detenuti non inviino ordini all’esterno?
L’unica finalità del 41bis, concordano gli avvocati e le camere penali, è quella di spingere una persona a compiere un’azione che non farebbe mai volontariamente: fornire elementi per mandare altre persone in carcere. Non è un caso che recentemente l’Unione delle camere penali abbia affermato che la finalità del 41bis è pari a quella della tortura: ottenere informazioni che si possono estorcere solamente rendendo impossibile la vita a un uomo.
In quella mattinata di aprile, tra le sedie di quell’aula magna, c’ero anche io, indegnamente al tavolo dei relatori. Ne sono uscita con la netta convinzione che una società più equa sarà possibile solo se animata da una collettività che studia, che approfondisce, che analizza fuori e dentro l’istituzione, che guarda Mare fuori possedendo strumenti critici, che legge Foucault ascoltando la trap, che si immerge nell’attualità e affronta il futuro con la consapevolezza di un passato che continua a riguardarci tutti.