Seguendo le vicende della politica italiana, negli ultimi mesi,
mi sono ricordato sovente di quando Enrico Berlinguer affermò che si sentiva più sicuro sotto l’ombrello della Nato piuttosto che in altre situazioni.
Probabilmente su questo ragionamento del segretario del Pci influivano parecchio i dubbi sull’incidente stradale in cui era incorso in Bulgaria. Ma perché (si parva licet) mi riferisco a quelle parole che, a suo tempo, ebbero la loro importanza nel segnare il processo di autonomia del Pci dal Pcus (che, peraltro, non arrivò mai a compimento prima del crollo del Muro di Berlino)?
Devo ammettere che mi chiedo spesso se le questioni che ritengo più importanti in questa stagione politica, siano meglio garantite dal governo Meloni che da un’ipotetica maggioranza dell’attuale sinistra. Non mi riferisco solo al tradizionale sistema di alleanze dell’Italia e alla solidarietà con la resistenza del popolo ucraino, ma anche alle politiche economiche, del lavoro e di finanza pubblica.
Per quanto riguarda le questioni di carattere internazionale è vero che il Pd – dopo l’elezione di Elly Schlein – non ha cambiato linea (anche se in quella precedente ci sta un po’ stretta) ma sappiamo tutti quali problemi insorgerebbero, per quanto riguarda l’assistenza militare all’Ucraina, da parte della sola coalizione di sinistra ora possibile (ovvero con la presenza attiva del M5S).
Ci sono, poi, altri aspetti che a mio avviso sono di difficile comprensione. Poiché l’attuale gruppo dirigente è molto critico nei confronti dell’azione del partito negli ultimi dieci anni, tanto da attribuirvi il motivo della sconfitta elettorale e da ripudiare le principali scelte compiute stando al governo (si pensi al vilipendio del jobs act), mi pare evidente che quanti – come il sottoscritto – hanno apprezzato, in linea di massima, quelle politiche, si senta stranito e si chieda che cosa farebbe il Pd se tornasse nella ‘’stanza dei bottoni’’.
Chi ha condiviso il riformismo del Partito democratico, al governo, come può accettare che quella cultura sia ricondotta ad un raptus ‘’ordoliberista’’, ad un amorazzo innaturale con il capitalismo, ad un cedimento etico e culturale? Che cosa significa per il Pd il voler tornare a sinistra come se le politiche fatte negli ultimi anni fossero di destra? Quali sono le misure assunte dai governi, a guida a partecipazione del Pd, che hanno danneggiato i lavoratori? Per quanto mi riguarda, giudico insensata la giaculatoria con cui il Pd si è contraddistinto durante la campagna congressuale: la storia di aver governato per 10 anni negli ultimi 11, senza aver vinto le elezioni. A parte il fatto che se le avessero vinte un altro partito o un’altra coalizione avrebbero governato loro (come è successo col Conte 1 e con il governo Meloni).
Ma in una Repubblica parlamentare governano legittimamente quei partiti che riescono a combinare una maggioranza che voti la fiducia ad un governo. Certo, nella passata legislatura la politica ha viaggiato più volte sull’ottovolante, a causa del quadro politico bizzarro uscito dalle urne nel 2018. Ma quando i dirigenti del Pd insistono su questa analisi, mi auguro che non siano pentiti di essere stati indotti, nell’estate del 2019, ad evitare le elezioni anticipate (che sarebbero state vinte da Matteo Salvini, su di una linea genuinamente anti Ue, anti Euro e in regime di chiusura dei porti per difendere i confini dal ‘’nero periglio che vien da lo mare’’).
O che rimpiangano di non aver potuto realizzare l’obiettivo del Conte 3 per conseguire il quale si erano messi persino alla questua dei parlamentari ‘’responsabili’’, adeguandosi poi alla sorpresa di Mario Draghi e della maggioranza di unità nazionale. Anche se non è stata tutta farina del loro sacco, i dem dovrebbero apprezzare il ruolo svolto nella XVII legislatura, dove, soprattutto nell’ultima fase, il partito ha contribuito in maniera importante a tracciare una strategia che neppure il governo Meloni è stata in grado di abbandonare, almeno negli aspetti essenziali, nonostante che FdI fosse all’opposizione. E’ proprio questa linea di sostanziale continuità con il precedente governo (il decreto lavoro del 1° maggio ne è la prova) da parte di un partito che ne aveva criticato le scelte politiche, che dovrebbe far capire al Pd di aver governato nel migliore dei modi possibili pur in mezzo a difficoltà eccezionali.
La sconfitta del 25 settembre – con quella legge elettorale – era inevitabile, perché nei collegi uninominali avrebbero comunque vinto i candidati della coalizione più ampia e consolidata. La vera riflessione autocritica andava fatta sulla gestione paranoica delle alleanze elettorali, visto che non era stato possibile modificare – il Pd di Letta non ci teneva affatto – una legge che, a cose fatte, non avrebbe potuto dare un esito diverso. Ma perché perdere tempo in cose tanto banali quando è molto più gratificante andare alla ricerca della identità perduta? Per ritrovarla in Elly Schlein che al pari di Giovanna d’Arco ‘’sente le voci’’.