Ci sono scrittori che vanno tenuti a portata di mano sempre, in borsa o sul comodino,
in bagno o sul tavolo da lavoro, perché la loro opera configura complicati universi paralleli e la loro esistenza traccia percorsi di grazia da intercettare e fare propri, a cui ambire.
Sono creature che attraversano questa terra leggere e impalpabili, che lasciano dietro di sé scie sottilissime e luminescenti, resistentissimi fili d’argento che il tempo non sa spezzare.
Cristina Campo è sicuramente una di loro. Di sé scrisse, in una celebre poesia, Due mondi – io vengo dall’altro, e appare davvero una creatura catapultata sulla terra da un universo etereo, sovrasensibile, in cui vivono esseri fatti di pura anima.
A guardare le sue foto ci si rende subito conto di avere a che fare con un’entità che trascende la vita terrena, che sembra appartenere a un mondo altro, fatto della levità che possiede solo chi ha fatto del proprio passaggio terrestre una speculazione intellettuale e spirituale: la schiena dritta e il collo elegante sorreggono l’ovale perfetto del volto, gli zigomi svettanti, lo sguardo altero e intelligente adornato dagli archi delle sopracciglia che si levano come ali di gabbiano, la bocca volitiva e carnosa che tradisce, nel sorriso appena accennato, l’ironia con cui osservava il mondo.
Nasce a Bologna cento anni fa, il 29 aprile 1923, sotto il nome di Vittoria Maria Angelica Marcella Cristina Guerrini, ma nella vita prenderà molti altri nomi, firmandosi con gli pseudonimi più disparati: Puccio Quaratesi, Bernardo Trevisano, Benedetto P. D’Angelo, Giusto Cabianca, la Pisana, la Pisana Correr, ma tra tutti quello che le resterà addosso e che la identificherà come scrittrice è quello che si sceglie intorno ai trent’anni, quando smette di essere Vie e diventa, per tutti ma soprattutto per l’ambiente letterario, Cristina Campo.
Figlia di Guido Guerrini, compositore e simpatizzante fascista e di Emilia Putti, colta sorella del celebre ortopedico Vittorio Putti, coppia innamorata che per lei resterà sempre l’emblema della vita coniugale, Vittoria nasce con una malformazione congenita al cuore, il dotto di Botallo pervio che lei chiamerà l’artiglio sinistro, un condotto che durante la gravidanza mette in comunicazione i due ventricoli del cuore per poi chiudersi nelle ventiquattro ore successive alla nascita, e che in lei rimane aperto, causandole una salute cagionevole che la costringerà spesso a letto, impedendole l’infanzia di una bambina qualunque e condizionando tutto l’arco della sua vita.
Per questo motivo non frequenta la scuola se non saltuariamente, e la sua formazione culturale si svolge prevalentemente da autodidatta, nella biblioteca di famiglia, leggendo fiabe, miti e classici della letteratura rigorosamente in lingua (francese, inglese, spagnolo, latino), come da dettame paterno, e queste letture segneranno il suo immaginario di scrittrice adulta, consegnandole i temi ricorrenti della sua letteratura: la fiaba, il destino, l’arcano, il simbolo e un futuro da traduttrice e lavoratrice culturale. Legge Omero, Shakespeare, Leopardi, Dante, e i russi in cui, come le disse suo padre, Troverai molto da soffrire, ma niente che possa farti molto male.
Il padre fu anche il primo sostenitore della sua attività letteraria, il primo a riconoscere il genio della figlia, quello al quale scriverà, ancora affranta dal dolore dopo la morte improvvisa della sua amica Anna Cavalletti sotto i bombardamenti di Firenze del 25 settembre 1943
Sento e vedo che tutto non è ancora perduto – che si può ancora sentirsi vivi e cioè “volere” qualcosa. Papà non dubitare: scriverò, scriverò bene.
È forse la morte di Anna che segna il punto di svolta nella vita di Vittoria, come sottolinea Cristina De Stefano nella bella biografia Belinda e il mostro (Adelphi): scrivevano l’una per l’altra in un’amicizia che era una comunione intellettuale e spirituale, una stima reciproca così alta che Vie, come spesso firmava le sue lettere, pensò di inserire l’amica e i suoi componimenti in un libro che purtroppo non vide mai la luce, una summa di ottanta poetesse e scrittrici che avevano fatto la storia della letteratura, accanto a Saffo, Emily Dickinson, Simone Weil.
Vittoria decide così di scrivere, e di scrivere bene, in una tensione alla bellezza assoluta, alla perfezione che sarà la cifra distintiva delle sue creazioni letterarie. È esile Vittoria, fragile, eppure nasconde un carattere imperioso e una volontà di ferro propria degli asceti, in lei costantemente affluiscono la vita e la spiritualità, la forza e la fragilità, la calma degli anacoreti e gli scatti d’ira dei passionali, in un gioco di vasi comunicanti che sembra la riproduzione esatta di quel che avveniva all’interno del suo cuore malandato.
È la perfezione a cui ambirà tutta la vita Cristina Campo, in una particolare forma che vede la verità e la bellezza al centro della sua produzione letteraria, fatta di saggi raffinatissimi, poesie e traduzioni (tra cui Katherine Mansfield, John Donne, Virginia Woolf, Emily Dickinson, Simone Weil, William Carlos Williams), tutta raccolta da Adelphi in una manciata di libri, ma preziosissimi: La tigre assenza, Gli imperdonabili, Lettere a Mita, Caro Bul. Lettere a Leone Traverso, Sotto falso nome, Il mio pensiero non vi lascia. Lettere a Gianfranco Draghi e ad altri amici del periodo fiorentino. In lei riecheggiano il rigore morale e l’ascetismo dell’amata Simone Weil, che non smise mai di leggere, tradurre e promuovere, e la affilata spiritualità di Emily Dickinson: come lei Cristina visse lontana dai riflettori e dagli ambienti letterari più mondani, verso cui non di rado indirizzò commenti taglienti e arguti non privi di ironia.
Ho appena l’energia sufficiente a difendermi da ciò che accade in letteratura – a bruciar sandalo e cinnamomo, come Defoe durante la peste. Per tener lontano da me tutto ciò che si fa e si dice nelle lettere italiane degli anni ’60… Pacchi di libri arrivano a E.Z. – ed è come se arrivassero pacchi di cibi guasti, pezzi di carogna.
Forse per questo, e perché la considerava reazionaria, l’ambiente letterario italiano la ignorò a lungo, anche dopo la sua morte. Lei, l’imperdonabile, se ne tiene sempre a margine, celata da eteronimi che la proteggono, la fanno vivere fuori dall’applauso, questa mortale misura del tempo.
Somiglia alla sua Emily Dickinson, che scrisse:
Sono Nessuno! E tu?
Sei – Nessuno – anche tu?
Allora siamo in due!
Non dirlo! Spargerebbero la voce, sai.
Che gran peso – essere – Qualcuno!
Così volgare – come una rana –
Che gracida il suo nome – tutto giugno
A una palude ammirata!
La personalità di Cristina Campo è così forte e salda da potersi permettere di scomporsi nel prisma dell’eteronimia, essere uno e nessuno mentre si assumono centomila nomi, giocando a mettere in luce di volta in volta i diversi aspetti di un’identità complessa e stratificata e mai rigida e monolitica, che la esclude dal mondo delle lettere e al tempo stesso la consegna all’eternità e nel farlo, esattamente come Dickinson, Campo morì per la bellezza e la verità, in letteratura come in amore.
Scrisse in una lettera a Mita (Margherita Pieracci Harwell), amica e corrispondente di una vita:
C’è un tipo d’uomo nel mondo, col quale (forse) accetterei di vivere. È un tipo d’uomo che se rientrando gli dici «Sai, ho sfasciata la macchina» si mette a ridere ed esclama «Racconta, cara, dev’esser stato divertentissimo». E, strana cosa, allo stesso tempo è un tipo d’uomo che capisce tutto: Foucauld e Fufluna, i Piaroa e la pittura di Chinn, i Penati e le tombe degli schiavi di Fiumicino.
Non è detto che io mi riferisca ad un individuo particolare. Il solo che conosca, del resto, ha già una moglie che adora (per loro e mia fortuna). E vive, s’intende, 1000 miglia lontano – abbastanza perché io creda ancora nella sua esistenza.
In amore fu libera come lo fu nella scrittura e non si sposò mai, affascinata com’era dall’idea di oltrepassare il tempo senza legame alcuno «nessun vincolo univa questi morti nella necropoli deserta».
Amò tre uomini, tutti intellettuali come lei: il grecista e traduttore Leone Traverso (Bul), il poeta Mario Luzi (già sposato) e lo studioso Elémire Zolla, che fu il suo compagno fino alla fine, riservando loro quella concezione altissima dell’amore che nulla forza e nulla chiede “Che io non voglia mai chiederti amore” dovrebbe essere il voto reciproco degli amanti, la formula sacramentale delle nozze. È un equilibrio impossibile, ma di che altro l’amore vorrà vivere?
E quando questi amori si spezzano, è sempre la verità, ciò che Cristina cerca nel fondo della solitudine. Scrisse in una lettera a Leone Traverso, quando si consumò la loro rottura:
Da questo il mio pensiero (e le mie parole) risalirono fatalmente al centro delle cose, di questo nostro rapporto che non ha più nulla di umano, nato e cresciuto sotto una cattiva stella. È un’operazione che tu eviti, e lo capisco. Ma a me importa, a questo mondo, unicamente la verità; e al centro delle cose non trovai – una volta di più – se non un irrimediabile sentimento di solitudine.
E ancora, quando è invece la relazione di una vita con Elémire Zolla (che conosce e inizia a frequentare quando era già sposato a Maria Luisa Spaziani e per questo suscita la disapprovazione dei suoi genitori) a incrinarsi: Ieri sera, tra il sonno, una frase mi attraversò la mente: “Quando una creatura degna del tuo amore si rifiuta di incontrarti in un punto, è perché ti aspetta in un punto più alto”.
Si rifugia allora nello studio e nella letteratura, sua fiaba e destino, scissa tra il bisogno dell’altro e la sua propria individualità
Io ho ridotto tutta la mia vita alla mia stanza perché tutto il lavoro è sul tavolo, e anche questo fa blocco con il resto, in un macigno che chiude la caverna.
Da quella stanza ricava una prospettiva sul mondo, e la capacità di raccontarla: tutta la mia forza è la mia solitudine, il mio andarmene sola per questi luoghi, la libertà come un coltello tra i denti.
Una coerente contraddizione sembra connaturata alla sua esistenza: passionale e spirituale a un tempo, seria eppure piena di ironia e autoironia, profondamente antimoderna eppure in grado di vivere more uxorio con gli uomini che ha amato, bisognosa di denaro (la molla potente per il suo lavoro) eppure generosissima con chi ne ha bisogno, elitaria ma vicina agli umili, gli sconfitti, quegli imperdonabili di cui sa tracciare ritratti densi di acuta compassione. Come Simone Weil, sente i mali del mondo, e sa battersi per Danilo Dolci come per i minatori periti nell’esplosione del 6 agosto 1956 in Belgio: lottare per le cause da lei ritenute giuste contraddistinse fino all’ultimo giorno la sua esistenza combattiva e unica.
Restò per tutta la vita lontana dai circoletti intellettuali alla moda, selezionando – rigorosissima – pochi scrittori da ammettere nelle sue case di Firenze e Roma (tra cui Guido Ceronetti, Pietro Citati, Elena Croce, Mario Bortolotto, Rodolfo Wilcock, Giovanni Macchia, Sergio Quinzio, Mario Praz, Leonardo Foà, Anna Banti, Corrado Alvaro e un giovanissimo Roberto Calasso) e con lo stesso rigore selezionò le poche cose di cui scrivere e le moltissime da scartare.
Il suo primo libro, Passo d’addio, è del 1956, viene pubblicato dalle edizioni All’insegna del Pesce d’oro e contiene undici poesie. Per la prima volta si firma con lo pseudonimo definitivo, Cristina Campo, con cui consegna a sé stessa un nuovo destino.
Scrisse di lei l’amico Remo Fasani «Leggeva enormemente e scriveva poco. Ma quando scriveva era pronta per farlo». Della propria produzione letteraria Cristina disse Ha scritto poco, e vorrebbe aver scritto meno e in questa sottrazione non trovarono mai posto romanzi né racconti (solo uno, La noce d’oro, mandato per bisogno di denaro al premio Teramo, che però non vinse) ma poesie, traduzioni, saggi e introduzioni, curatele, scritture per la radio e la Rai, collaborazioni con editori come Rusconi, per cui curò un catalogo di autori importantissimi come Ceronetti, Quinzio, Spina, Schneider, Lévi-Strauss ma che non ricevette mai dal mondo delle belle lettere la considerazione che meritava.
Pochissimi e saltuari furono gli articoli su riviste (tra cui L’Approdo, Il Mondo) eppure questa produzione spuria brilla come un diamante nella pletora dell’iperproduzione letteraria, si contraddistingue per misura ed eleganza in un universo in cui tutti sembrano gridare e sgomitare per il loro posto sulla scena. Cristina Campo invece rimane nell’ombra, cura i lavori altrui e che si occupi di Djuna Barnes o Weil, o che scriva cose proprie, lo fa sempre con una precisione inappuntabile. Scrive a Mita, il 27 luglio del ’57:
Bisogna vivere tutto fino in fondo. Ogni volta che si torna indietro è per tracciare un nuovo cerchio, ancora e ancora finché non sia perfetto. Vivere tutto con rispetto di sé […] Il cerchio si traccia con la volontà di capire.
Per tracciare il cerchio perfetto lo strumento affilatissimo nelle sue mani è la sprezzatura, quella facilità nella scrittura da conquistare anche a fatica, e che sembra così bene riflettere il suo carattere fatto di gravità e leggerezza, rigore intellettuale e ironica levità, che così descrive nel saggio Con lievi mani (Gli imperdonabili):
Sprezzatura è un ritmo morale, è la musica di una grazia interiore; è il tempo, vorrei dire, nel quale si manifesta la compiuta libertà di un destino, inflessibilmente misurata, tuttavia, su un’ascesi coperta. Due versi la racchiudono, come un astuccio l’anello: “Con lieve cuore, con lievi mani, la vita prendere, la vita lasciare”. […] La bellezza, innanzi tutto, interiore prima che visibile, l’animo grande che ne è radice e l’umor lieto. Ciò significa, tra l’altro, capacità di volare incontro alla critica con impeto sorridente, con la graziosa enfasi dell’incuranza di sé: un tratto che troviamo tanto nei precetti dell’educazione mistica quanto in quelli della scienza mondana.
La scrittura che non si cura di sé, che procede leggera e spedita a dispetto dei lettori, si tramuta spesso in una lotta tra la mente e il suo cuore, una fatica che le impone lunghe battute d’arresto verso cui nulla può la sua ferrea determinazione: quando l’artiglio sinistro la afferra, può solo abbandonarsi, spossata, a letto.
Il 1960 è l’anno della Tigre assenza, quello in cui in rapida successione rimane orfana di entrambi i genitori e che segnerà la svolta spirituale della sua vita. La dimensione religiosa, che da sempre le è appartenuta, si radicalizza, diventa seguace dell’arcivescovo Lefebvre (in seguito scomunicato da Papa Giovanni Paolo II) e origina in lei un attivismo senza sosta che la vede impegnata in numerose battaglie considerate antimoderniste dalla stessa Chiesa, tra cui quella per mantenere nei conventi e nei monasteri la messa in latino, che lei trova sublime e spiritualmente più elevata. Si affina la rottura con il mondo e quella con Zolla, che non condivide il suo attivismo esasperato. Inizia a scrivere quasi esclusivamente della liturgia che – come poesia – è splendore gratuito, spreco delicato, più necessario dell’utile. Fu tra le fondatrici di Una voce, un’associazione che promuoveva la tradizione liturgica latino-gregoriana come la più vicina alla Chiesa dei primordi e la più spirituale, opponendosi al Novus Ordo Missae sancito dal Concilio Vaticano II, ma rende Eugenio Montale il presidente onorario, rimanendo, come d’abitudine, nell’ombra. Riesce a far firmare un appello contro la modernizzazione della liturgia da trentasette artisti e intellettuali di ogni paese, tra cui Auden, Borges, De Chirico, Montale, Ocampo, Quasimodo.
La sua scrittura, che inizia saltuariamente a firmare con lo pseudonimo Xtina, si fa sempre più precisa, tutta tesa alla perfezione, un uccellino che si fa venire la febbre, a cantare così, che si riduce a una palla di piume arruffate, una pallina ardente. La società di massa, così omologata e omologante, le fa orrore come la perdita del destino. Si arrocca nella lettura dei classici, selezionando con sempre più severità i pochi autori viventi di cui nutrirsi. Studia, fa il bagno nel lago di Bracciano – per lei l’acqua è da sempre rinascita, palingenesi – e si vieta la letteratura, la fantasia, mentre trova rifugio nella saggistica e nella religione, rifuggendo la volgarità che l’annoia più di un deserto. Prega, prega incessantemente, ripete i nomi di Dio per indiarsi, come un derviscio, nella preghiera.
Negli ultimi anni della sua vita l’angoscia, l’orribile nodo, la blocca, la malattia la fiacca e scrive sempre meno, vive tutta nel tempo presente, sospesa in un’atemporalità mistica, lontana dal passare dei giorni. Il tempo, l’altra sua grande ossessione, sembra sollevarla da terra, staccarla dal suo secolo irriconoscente, e la consegnerà a quei lettori che lei non aveva cercato mai solo molto tempo dopo la sua morte, avvenuta all’improvviso la notte tra il 10 e l’11 gennaio del 1977. Rimarranno di lei poche cose facili da inventariare, le sue carte chiuse in un baule e quasi tutte perdute, ma la sua scrittura resta, resiste oltre le cose concrete, l’ordinario scorrere delle stagioni e delle mode letterarie, tutta avviluppata in quella concezione altissima della letteratura, il suo mondo fatto di vasi comunicanti, universi altri, che lei aveva saputo rendere osmotici.
Non è facile la scrittura di Cristina Campo, richiede un lettore esigente, che voglia saltare l’ostacolo e tuffarsi nella complessità dei temi e nella levigata perfezione del linguaggio, ma è proprio questo che la rende una lettura da tenere a portata di mano quando la mente necessita di spostarsi su vette più alte, speculative, dove lo spazio e il tempo sono annullati e rimane, adamantina, la pura bellezza della creazione umana.
Cristina Campo, l’imperdonabile, la mistica, la veggente dei due mondi, va cercata all’ombra della luce, nell’eternità, come una fede in grado di vincere la categoria tutta umana del tempo.
Solo resiste al tempo
quel che si fa
col tempo.
E quello che si fa con l’eternità?
La poesia viene
quando restiamo
nell’inesauribile
compagnia della solitudine.
Viene come un sùbito
taglio, dove si mischiano
con fredda febbre,
sangue con sangue,
due separati
mondi.