Contrariamente a quanto annunciato dal governo e paventato dall’opposizione,
è prevedibile che la nuova norma non sia destinata a produrre un allargamento delle maglie della disciplina dei contratti a termine rispetto a quella che è stata in vigore finora.
Un aspetto di irragionevolezza della norma che viene conservato
L’articolo 24 del decreto-legge varato il 1° maggio modifica la disciplina dei contratti di lavoro a termine conservando la possibilità di assunzione a tempo determinato senza vincolo di motivazione per un periodo di 12 mesi. Se fra la stessa azienda e lo stesso lavoratore il contratto viene prorogato o rinnovato oltre il primo anno, questa maggior durata deve essere giustificata da un motivo previsto dal contratto collettivo applicabile.
In attesa che la contrattazione collettiva provveda a individuare i motivi idonei a giustificare l’apposizione del termine, ma comunque non oltre la fine del 2024, il prolungamento del rapporto a termine fino al limite massimo di 24 mesi sarà consentito “per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti”, cioè dallo stesso contratto individuale di lavoro.
La prima osservazione – ma è la stessa che viene ignorata dagli uffici legislativi ministeriali a ogni intervento in materia di contratto a termine – è questa: non si capisce perché si consideri un contratto della durata di 12 mesi, o anche più breve, “migliore” per la persona che lavora rispetto a un contratto della durata di 18 o 24 mesi. Una cosa è proteggere la persona contro l’incertezza circa il possibile rinnovo o proroga del contratto, dopo un primo periodo di un anno o meno; tutt’altra cosa è vietare un contratto che dia fin dall’inizio garanzia di durata per più di un anno, come per esempio quello che preveda un termine di 18, 24, o – perché no? – di 36 mesi.
Per questo aspetto, l’irragionevolezza della nuova norma, acriticamente ereditata da quella previgente, meriterebbe un intervento di parziale correzione da parte della Corte costituzionale.
La novità della “causale contrattata”
Ma veniamo a quella che il governo presenta come una novità nel segno della flessibilizzazione rispetto alla disciplina previgente: la possibilità di rinnovare o prorogare i contratti fino a 24 mesi complessivi, per i motivi indicati dai contratti collettivi, e, nell’attesa di questi, “per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti”.
Quanto ai contratti collettivi, è nota la difficoltà che incontrano le parti per il rinnovo ordinario dei contratti nazionali alle scadenze previste; presumibilmente ancora maggiori saranno le difficoltà per la negoziazione di un’integrazione dei contratti stessi durante il loro periodo di vigenza. È più facile che la facoltà attribuita dalla legge alla contrattazione collettiva venga esercitata semmai al livello della contrattazione aziendale; ma, questa copre soltanto un terzo circa della forza-lavoro occupata e opera quasi esclusivamente nelle aziende di dimensioni grandi o medie.
È prevedibile, comunque, che anche là dove la contrattazione collettiva adempirà la funzione assegnatale dalla nuova norma, lo farà ricalcando quanto previsto dalla legge in via provvisoria: prevedendo cioè la possibilità di rinnovo o proroga del contratto a termine “per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva”.
È questa la “causale” estremamente generica che era stata introdotta dal decreto legislativo n. 368 del 2001 (il cosiddetto “causalone”); e proprio l’esperienza di applicazione di quella norma dice che la sua genericità consente, sì, le motivazioni più svariate dell’apposizione del termine al rapporto, ma consente anche agli avvocati altrettanta libertà di impugnare il contratto chiedendo il controllo della corrispondenza del motivo addotto in concreto rispetto a ragionevoli “esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva”, secondo la variabilissima interpretazione che ciascun giudice può discrezionalmente dare di questa nozione. Donde un rilevante aumento del contenzioso giudiziale, con la conseguente ineliminabile incertezza degli esiti, dannosa sia per le imprese sia per i lavoratori.
Se quello ora indicato è l’esito probabile dell’affidamento ai contratti collettivi del compito di stabilire i giustificati motivi di apposizione del termine, ancor più marcato è l’aumento probabile del contenzioso giudiziale sui motivi che verranno “individuati dalle parti” individuali, secondo quanto è previsto in via transitoria dalla nuova norma contenuta nel decreto, in attesa dei contratti collettivi.
L’errore prospettico sul rischio del precariato in cui cadono l’informazione e la politica
Sono queste le considerazioni che mi inducono a svalutare la “flessibilizzazione della disciplina” dei contratti a termine annunciata dal governo; e a considerare di conseguenza eccessiva la denuncia da parte del Pd e della Cgil della nuova norma come foriera di un aumento della “precarizzazione” del lavoro.
Fenomeno, questo, il cui aumento è percepito da politici e sindacalisti in modo distorto anche a causa di un difetto dell’informazione giornalistica. Quando parlano della questione del precariato, i giornalisti cadono molto frequentemente nell’errore di confondere il dato di flusso col dato di stock. Per capire meglio di che cosa si tratta, pensiamo a una vasca nella quale entrino da un rubinetto, per uscire poi dallo scarico, dieci litri ogni ora; e ipotizziamo che contenga in un dato momento cento litri. I dieci litri all’ora che entrano ed escono sono un dato di flusso, mentre i cento litri che la vasca contiene sono un dato di stock.
Ora, immaginiamo che la vasca rappresenti la forza-lavoro occupata nel tessuto produttivo italiano, esclusi gli imprenditori e gli autonomi: il dato di stock è costituito dai 18,3 milioni circa di persone che svolgono una attività dipendente retribuita, dei quali 15,3 milioni stabili e 3 milioni a termine (circa il 16,4 per cento del totale: in linea, dunque, con la media Ue).
Se invece consideriamo il dato di flusso (l’acqua che entra dal rubinetto), ovvero il numero delle persone che ogni mese od ogni anno vengono ingaggiate, osserviamo che tra metà e due terzi delle assunzioni sono a termine: sono quelli che chiamiamo contratti di lavoro precari. L’enorme differenza tra il dato di flusso e il dato di stock si spiega molto semplicemente col fatto che dopo qualche tempo i rapporti a termine si trasformano per la maggior parte in rapporti a tempo indeterminato, col risultato che nella “vasca” del tessuto produttivo più di cinque lavoratori su sei sono in realtà a tempo indeterminato.
Tutto bene, dunque? Possiamo dire per questo che il precariato non è un problema? No di certo. Perché c’è una parte (pur minoritaria) di persone per le quali l’ingaggio a termine dipende da una debolezza professionale permanente, che comporta anche trattamenti retributivi molto bassi e incapacità di uscire da questa condizione pur dopo anni di lavoro. Questa è la vera “piaga del precariato”.
È una piaga, però, che dovrebbe essere curata, più che con inasprimenti delle norme legislative sul contratto a termine, con la predisposizione, almeno per le persone professionalmente più deboli, di servizi più efficaci di informazione, orientamento e formazione professionale mirata agli sbocchi effettivamente esistenti.
Ma per prima cosa occorrerebbe una informazione corretta in proposito. E, sul piano politico, un po’ meno faziosità.